MAESTRELLI Tommaso: l’Angelo laziale

Tommaso Maestrelli, nato a Pisa il 10 ottobre 1922 e morto a Roma il 2 dicembre 1976, come allenatore resterà per sempre legato allo scudetto della Lazio nel campionato 1973-74. Prima di diventare allenatore, era stato anche un buon giocatore. Da ragazzo, a seguito del padre impiegato alle Ferrovie dello Stato si spostò in varie città fino a quando, tredicenne, si stabilizzò con la famiglia a Bari: amante dello sport, fece un provino con i Pulcini del Bari subito preso. Nelle giovanili baresi, detto il toscanino per via dell’accento, fece tutta la trafila fino a quando nell’estate 1938, sedicenne, l’allenatore ungherese Giuseppe Ging lo aggregò in prima squadra facendolo esordire con il Milan il 26 febbraio a Milano. Nel capoluogo barese conobbe Angelina “Lina”, figlia di un vigile urbano, che il 2 agosto 1947 diventerà sua moglie (dandogli quattro figli: Patrizia e Tiziana e i gemelli “portafortuna” Massimo e Maurizio).

Difensore, al Bari restò fino al 1949: nel periodo 1939-43 prima tra le riserve, giocando però le ultime 5 gare di campionato e contribuendo alla salvezza con il primo gol in A (l’ultima giornata contro la Fiorentina); poi, chiamato alle armi, tra A e B quando il Regio Esercito lo concedeva (18 gare, 1 gol). Quando l’Italia entrò in Guerra, inviato in Jugoslavia dove fu ferito in modo lieve a una gamba; ristabilitosi, cadde in un’imboscata e fatto prigioniero dalle truppe tedesche (in modo fortunoso rientrò a Bari quando queste ultime furono costrette ad abbandonare le posizioni lasciando incustoditi i prigionieri). Titolare del Bari, fu convocato in Nazionale per le Olimpiadi di Londra 1948.

La sua carriera proseguì alla Roma nella stagione 1950-51, già in predicato di passare al Grande Torino (doveva salire sull’aereo che precipitò a Superga il 4 maggio 1949 ma un disguido lo trattenne nella capitale), di cui era capitano e che retrocesse in serie B. Dal 1951 al 1953 alla Lucchese (nell’estate 1952 sotto inchiesta, poi archiviata con “non luogo a procedere”, per una presunta combine fra Lucchese e Como). Infine di nuovo al Bari, che scivolato in quarta serie contribuì a far risalire, l’ultima stagione come vice.

Proprio al Bari di Allasio, dopo alcuni anni da assistente, esordì in panchina venendo esonerato alla 10. giornata. Chiamato dal presidente dell’As Reggina Oreste Granillo (1964-68), contribuì alla storica promozione della società calabrese in serie B venendo premiato con il Seminatore d’oro e sfiorando l’anno dopo la serie A. Nel 1968, per stare più vicino alla famiglia rimasta a Bari, si trasferì al Foggia: tre stagioni, sfiorando nella prima la promozione in serie A e la vittoria della Coppa Italia (affrontò per la prima volta all’Olimpico la Lazio capolista di Juan Carlos Lorenzo; la sua squadra fu “perfetta”) e centrandola nella seguente che gli valse il secondo “Seminatore d’oro”. In A, nel girone di andata della stagione 1970-71 il Foggia fu la squadra rivelazione; poi, inaspettatamente, nel ritorno la squadra perse brillantezza e retrocesse per differenza-reti.

L’anno dopo, chiamato dal nuovo ds Vittorio Sbardella, passò alla Lazio anch’essa retrocessa ma che il presidente “Sor Umberto” Lenzini voleva riportare in A: accolto con scetticismo e ostilità di alcuni tifosi – manovrati dall’ex tecnico che lo accusava di inesperienza -, Maestrelli non se ne curò ma pretese la riconferma dell’italo-gallese Giorgio Chinaglia (“Senza Chinaglia non posso garantire nulla” ripeteva), centravanti di sfondamento in seguito della Nazionale ancora da affinare ma già trascinatore, che restò assieme al tornante Massa, uscito dal vivaio e molto richiesto.

Con i due e altri elementi di esperienza (il libero Wilson scelto capitano per il carisma dentro e fuori lo spogliatoio, Moschino a centrocampo, Bandoni tra i pali), la promozione fu ottenuta superando le difficoltà ambientali: le contestazioni dei tifosi e l’ammutinamento della squadra (che alla 2. giornata a Terni non voleva scendere in campo lamentando premi e stipendi arretrati) tanto che lo stesso Chinaglia, con cui aveva instaurato un rapporto paternale di semplicità e reciprica stima, ne prese le difese.

Ma fu nella stagione successiva in serie A che Maestrelli realizzò una squadra-capolavoro: Chinaglia e il libero acrobatico Wilson erano inamovibili, fu ceduto Massa e in cambio, oltre a Frustalupi nel ruolo di regista, giunsero i soldi con cui prendere tante facce nuove dalla B e trentenni considerati “spremuti” dalla A. La formazione allestita con geniali intuizioni a centrocampo (Martini infaticabile cursore destro; l’attaccante di riserva Manservisi, per cui i giornalisti coniarono l’espressione “gioco oscuro”, diligente pendolare a sinistra; Re Cecconi, già al Foggia, davanti la difesa) da brutto anatroccolo pre-campionato si trasformò in cigno risultando con 16 gol subiti la miglior difesa del campionato (tra i pali Felice Pulici, il portiere più battuto l’anno prima al Novara in serie B) mentre i gol erano compito di Chinaglia e della funambolica ala destra Garlaschelli, “Garrincha del Lago di Como”: 10 e 7.

Instaurando un rapporto da padre con i giocatori, questi misero da parte le loro antipatie (sfogate negli allenamenti e trasformate dal tecnico in linfa vitale) formando un blocco granitico e giocando secondo dettami tattici mai visti fino ad allora in Italia. In quel campionato tutto si decise l’ultima giornata: il Milan antagonista al vertice vi giunse con un punto in più della Lazio e della Juventus, ma fu sconfitto a Verona 5-3; la Lazio perse a Napoli 1-0 e lo scudetto, tra non poche polemiche (visto l’accanimento dei partenopei a fronte della remissività dei giallorossi; i primi, stando ai si dice, perfino rifiutando l’offerta di un laziale influente recatosi negli spogliatoi all’intervallo visto che qualcun altro aveva già provveduto a contattarli motivandoli), andò così alla Juve vittoriosa 2-1 sulla Roma; i biancocelesti però, vincitori morali, ottennero un traguardo impensabile e mai più eguagliato per una neo-promossa, e a Maestrelli fu assegnato il terzo “Seminatore d’oro”.

L’appuntamento con il tricolore fu rinviato alla stagione successiva 1973-74, la stagione del ritorno del Mago Herrera all’Inter, dopo che la squadra era stata rinforzata solo dagli innesti del golden boy D’Amico, 19enne di Latina dal carattere irrequieto che già aveva fatto esordire in B ma era reduce da un infortunio al ginocchio e nei cui confronti di comportò da vero padre (versandogli l’ingaggio in un conto vincolato, per evitare che sperperasse in pranzi e spuntini, e facendosi dare la patente perché non facesse tardi); dall’ex romanista Petrelli terzino sinistro d’attacco e da Inselvini.

Psicologo per forza, Maestrelli aveva il suo bel da fare per calmare gli animi di una squadra divisa in clan di scapestrati e indisciplinati, in cui tutti giravano armati non esitando a sparare ai lampioni per vincere la noia dei lunghi ritiri o ad azzuffarsi in allenamento e sotto la doccia sfogando rancori e antipatie ma che la domenica sopivano tutto in campo dov’erano tutti compatti e pronti a difendersi. “Una banda di fascisti”, nella definizione di Pier Paolo Pasolini e secondo l’opinione comune. Dopo prestazioni alterne, a Natale balzò in testa alla classifica. La squadra, che il tecnico arrivò a far allenare in due gruppi separati, praticava un calcio perfetto: movimento corale e ritmo le sue caratteristiche, con giocatori che nel corso della gara ricoprivano e si scambiavano tutti i ruoli in un gioco d’insieme  che ricalca l’Ajax dominatore europeo, anche se con interpreti di caratura inferiore – mai visto prima in Italia.

La Lazio che vinse lo scudetto il 12 maggio 1974 (giorno del Referendum sul divorzio) ai danni del Foggia, si era confermata per il secondo anno la miglior difesa del campionato e Chinaglia (che l’allenatore aveva ospitato a casa sua dopo il derby temendo vendette da parte dei tifosi romanisti) vinse la classifica marcatori con 24 gol. Maestrelli, che declinò le offerte della Juventus di Agnelli dopo un incontro pro-forma con l’Avvocato, era convinto di poter aprire un ciclo vincente con i bianco-celesti e non a caso l’anno dopo la Lazio – che non disputava la Coppa dei Campioni, sospesa 2 anni dalle competizioni europee per gli incidenti nella gara di ritorno di Coppa Uefa con l’Ipswich – era in piena corsa-scudetto quando, a seguito di forti dolori allo stomaco, tra gennaio e febbraio a lui fu diagnosticato un tumore al fegato con metastasi estese allo stomaco e pochi mesi di vita; la squadra chiuse al 4. posto con Bob Lovati in panchina.

In quell’inverno, era stato contattato anche da emissari della Federazione che per conto del Presidente Artemio Franchi gli offrirono la guida della Nazionale dopo Valcareggi (Bernardini era un traghettatore, mentre l’estate prima durante i Mondiali aveva destato impressione come lo stesso Maestrelli aveva gestito il “Caso Chinaglia”). Nel campionato 1975-76, con lui ricoverato, il presidente Lenzini cedette delle “colonne” affidando la squadra al giovane emergente Giulio Corsini, ma la squadra si ritrovò a lottare per non retrocedere. Intanto, malgrado l’infruttuosa operazione, le condizioni erano migliorate grazie a una cura sperimentale; quando incredulo e felice potè tornare in panchina condusse la squadra alla salvezza, senza Chinaglia che era partito per gli Stati Uniti dalla famiglia (e nei Cosmos di New York) ma dando la maglia n. 9 al promettente Bruno Giordano: all’ultima giornata, giunta alla pari con l’Ascoli e salvata dalla differenza-reti.

Dopo questa, che fu la sua gioia più grande nella carriera calcistica, si concesse una vacanza di due settimane in Abruzzo dall’amico Mario Tontodonati ex compagno di squadra nel Bari e nella Roma; ma in autunno, debilitato dal ritorno in panchina, il male tornò inesorabile. Maestrelli raccomandò al presidente Vinicio come tecnico, salutò i ragazzi e morì il 2 dicembre 1976, seguito due mesi dopo dal suo giocatore-figlio Re Cecconi. Tumulato nel cimitero di Prima Porta a Roma, la tomba per giorni fu ricoperta dalle innumerevoli corone di fiori giunte da tutta Italia e diverse iniziative presero il suo nome: tornei giovanili, un busto di bronzo nel centro sportivo di Tor Di Quinto, una strada nei pressi dell’Eur. Nel novembre 2006 poi, in occasione del trentennale della scomparsa, per volontà della famiglia è uscito un libro del giornalista sportivo Franco Recanatesi “Uno più undici” (Airone Editrice) che ne narra la biografia sportiva.

Mancano le controprove ma quella Lazio, con la guida di Tommaso Maestrelli, poteva aprire un ciclo: grazie alla maturazione di D’Amico e al lancio di alcuni giovani quali Giordano, Manfredonia (stopper elegante e raffinato), Agostinelli e altri scoperti da lui formidabile talent-scout. Era nato per fare l’allenatore: i presidenti gli davano carta bianca perché sapeva costruire squadre vincenti senza chiedere l’impossibile; profondo conoscitore della materia – ispirandosi alla Nazionale Ungherese vista nella Coppa del Mondo 1954 in Svizzera e al calcio “totale” dell’Ajax -, sceglieva i giocatori giusti e non costosi e li guidava con intelligenza, autorevolezza, umanità. Il miglior allenatore della generazione che ha avuto piena maturità all’inizio degli anni ’70. Signorile nei modi, profondamente umano nei rapporti coi calciatori (esempio di psicologia applicata allo sport per la famiglia allargata squadra), intelligente e rispettoso del diritto d’informazione, ha rappresentato una figura unica nel panorama calcistico nazionale.

Testo di Giovanni Pellecchia