Roma 1983: Cuore Giallorosso

PROLOGO

Siamo nell’estate del 1979. La Roma riparte, dopo la presiden­za Anzalone, con Dino Viola dietro la scrivania e il Barone Nils Liedholm a dirigere un gruppo dalle discrete potenzia­lità. Roma è città caotica, sven­trata dai residui dei boom edilizio, la passione della gente soffoca. La tranquillità e l’aria salubre sono i primi passi per la rifondazione. Val Pusterla, Brunico e dintorni. Nel silenzio della montagna, anche l’italiano cantilenante del mister trova la sua musicalità e la sua comprensione. La parola più controversa e meno chiara, “zona”, che nel vocabolario di Liedholm è sinonimo di razio­nalità ed equilibrio, dà il via ad un proget­to che risulterà chiarissimo. Turone, neoacquisto, fa coppia con il confermatissimo Santarini al centro della difesa, men­tre la ragnatela di centrocampo è formata dall’asse Di Bartolo­mei – Ancelotti. Davanti, Bruno Conti inventa e Pruzzo realizza. Semplice, efficace, ma non ancora vincente. E’ un calcio di buon livello, senza troppo pres­sing e fuorigioco, funzionale e divertente, però le squadre del nord hanno un’altro passo. Non è facile per Roma e la Roma ri­salire la china. Alla fine. però, arriva un settimo posto e soprat­tutto la conquista della Coppa Italia ai danni del Torino.

RITORNO IN ALTA QUOTA

Il calcio italiano riapre le frontiere agli stranieri. Nella vil­la di Viola, seduto a tavola, c’è un ospite d’eccezione: Zico, il miglior giocatore brasiliano del momento. Roma sogna il grande colpo, ma il Barone ha altre intenzioni per fare il salto di qualità. Fa acquistare un certo Falcão, da poco conosciuto al grande pubblico anche se già affermatissimo in Brasile. Il lungagnone dalla pelle chiara sembra il classico acquisto al risparmio, difficile da accettare dopo il mancato sogno Zico. I tifosi so­no scettici, la stagione non è an­cora iniziata e già si ironizza su questa squadra che «faceva ben sperare».

Ma la formazione ingrana, raccoglie convincenti successi in giro per l’Italia e il tecnico, con la sua zona lenta, imbriglia gli avversari e sino alla fine si gioca lo scudetto in un avvincente testa a testa con la Juventus. Al Co­munale di Torino, lo scontro di­retto decide il campionato; un punto separa le contendenti a fa­vore dei bianconeri. L’arbitro, se lo ricordano bene tutti, è Bergamo di Livorno. Un traversone taglia l’area, Turone si avventa sul pallone e segna. Nemmeno il tempo di esultare e il colore giallo della bandierina rispedisce nelle gole l’urlo del gol. Moviole e processi confermano la validità del gol, ma lo scudetto va alla Juventus. La Roma si accontenta ancora una volta della Coppa Italia, ma prepara la sfida per il futuro. L’anno seguente arriva terza, a causa di qualche infortu­nio dei giocatori chiave, ma nel frattempo esplode Sebastiano Nela, rivelazione del calcio italiano.

L’ANNO DELLE MERAVIGLIE

La società si rende conto che per rimanere a certi livelli è ne­cessaria una “rosa” piuttosto folta, così Viola e Liedholm pescano nel campionato italiano i giocatori con le motivazioni giuste. I presupposti per il salto di qualità ci sono e Vierchowod, Iorio, Maldera, Valigi, Nappi e Prohaska sono le novità su cui poggiano gli ambiziosi progetti societari. Il pubblico, figlio della sua grande passione, ancora una vol­ta è perplesso: a Torino arrivano Platini e Boniek, la Fiorentina si affida a Bertoni, mentre la Ro­ma prende uno scarto austriaco dell’Inter, che dopo la cessione di Prohaska si assicura Hansi Muller.

Ma l’avventura comin­cia bene, la nebbia dei dubbi si dirada al sole di Cagliari: è uno splendido 3-1 per i giallorossi. Se il buongiorno si vede dal mattino…  Alla seconda arriva a Ro­ma il Verona, la più pericolosa outsider del campionato, e dopo una partita sofferta Di Bartolo­mei segna su rigore allo scadere. La città comincia a credere nel lavoro del mister e della società. La prima delle tre sconfitte in campionato avviene sotto i colpi di classe di Roberto Mancini, che porta la Samp alla vittoria resuscitando le insicurezze dei tifosi giallorossi e restituendo voce agli scettici. Il primo perio­do di quell’annata meravigliosa sarà sempre contraddi­stinta dai forti dubbi e dalle critiche, ma anche dalla convinzione di ti­fare per una squadra vera, capace di lottare alla pari con gli squadroni plurideco­rati.

DUELLO ROMA-JUVENTUS

Il campionato, si riesce a in­travedere, non sembra caratteriz­zato dallo strapotere di una sola formazione, anzi le sorprese so­no all’ordine del giorno. Dopo la trasferta di Ascoli la vetta del campionato dice Roma, Pisa (!) e Sampdoria a pari punti, ma le due antagoniste non sembrano poter creare problemi di lunga durata ai giallorossi. Arrivano le vittorie ai danni di Napoli e Ce­sena e la Roma trova la testa so­litaria della classifica. Il pubblico è entusiasta, la squadra pratica un buon calcio, alle spalle non si vedono grossi avversari e un pensiero al successo finale non è solo un azzardo d’autunno. A gelare l’entusiasmo, ecco la solita Juventus, che a Torino ri­monta il vantaggio siglato dal sempre positivo Chierico. La sconfitta non lascia segni e i giallorossi riprendono il cammino fatto di vittorie interne e pareggi esterni. Fiorentina e Inter cado­no all’Olimpico, le inseguitrici commettono passi falsi in pro­vincia.

Il gioco convince, la squadra è solida, Pruzzo trova con facilità la porta avversaria, Iorio gioca abilmente come supporto al bomber e anche centrocampo e difesa contribuiscono al bottino di reti segnate. La sfida al vertice è in scena a Verona, un campo difficile da cui i giallorossi esco­no con un preziosissimo pareg­gio dopo essere andati in vantag­gio. La Roma rimane saldamen­te al comando grazie ai gol deci­sivi di Iorio, che non ha medie realizzative altissime ma che spesso, anche nelle Coppe, si in­venta uomo della provvidenza.

Nel girone di ritorno la co­stante rimane quella delle vitto­rie casalinghe e dei pareggi lon­tano dall’Olimpico. Ancelotti, Pruzzo e Di Bartolomei fanno la differenza: difficilmente sbagliano la “lettura” della partita, anche quando non sono in giornata di grazia. Proprio la costanza di rendimento diventa l’arma in più, facendo apparire i pochi punti di vantaggio un notevole scarto. A far cadere la regolarità del cammino romanista ci pensa ancora la Juventus, in una concitata partita nella capitale. Falcão porta in vantaggio i padroni di casa e la Roma, a pochi minuti dalla fine, ha sette punti sulla seconda. Ma i bianconeri ribaltano il risultato e al tri­plice fischio i punti di vantaggio sulle inseguitrici sono tre. La Roma è al bivio che indirizza verso il successo o relega nel limbo delle occasioni perdute: i ragazzi di Liedholm si riscattano prontamente vincendo sul campo di Pisa. La Juve, da copione, in­segue e non molla.

Un’altra otti­ma gara a Firen­ze, con un 2-2 ric­co di spettacolo e bel gioco, ma la notizia clamorosa giunge da Torino: il Toro rimon­ta due gol al­la Juve e si aggiudica il derby della Mole. Nella ca­pitale, lo smog lascia il passo all’aria che si respirava 40 anni prima, nei giorni del primo scudetto. Roma ri­bolle, ma la scaramanzia della gente e la flemma del tecnico svedese impediscono che la grande solidità dello spogliatoio e la compattezza della squadra vengano di­stratte proprio nel momento che conta. Un 2-0 sul rassegnato Catanzaro e Roma prepa­ra i festeggiamenti. In casa i gial­lorossi non sbagliano un colpo: dopo il pareggio di Milano con l’Inter, questa volta è l’Avellino a subire due reti. Il campionato è virtualmente deciso, mentre il Giudice Sportivo sanziona lo 0-2 per Juventus-Inter. Manca solo la certezza matematica, ma ormai i giochi sono fatti…

NILS LIEDHOLM, IL MAGO DEL NORD

La Roma pareggia 1-1 contro il Genoa e si aggiudica il cam­pionato. La metà giallorossa di Roma si riversa per le strade e tinge con i suoi colori la città. L’ultima di campionato è storia di festeggiamenti, standing ovation e fantasia, oltre che dei gol di Pruzzo, Falcão e Conti al malcapitato Torino. Iniziano le feste, i monumenti vengono infiocchettati, le strisce pedonali diventano giallorosse, i tifosi laziali si chiudono in casa per evitare gli… inevitabili sfottò. Si scatenano i tantissimi vip di fede romanista, con spettacoli, canzoni e soprattutto ci si gode la supremazia indiscutibile sui cu­gini biancocelesti.
«Con il Milan ho vinto quat­tro scudetti da giocatore e uno da allenatore; pensavo restasse­ro i ricordi più belli della mia vi­ta calcistica. Questo titolo con la Roma è di gran lunga il più sof­ferto quindi il più importante…»: pensieri e parole di Liedholm, uomo semplice e geniale, spesso ermetico, sempre simpatico. Par­lava in pubblico col sorriso ac­cattivante di chi si trova lì per ca­so, quasi fuori luogo, con quelle smorfie molto più chiare delle sue a volte incomprensibili frasi. Allenatore d’altri tempi, un gran­de signore del calcio.

Eppure a molti quell’apparen­te estraneità dal calcio dei chias­sosi processi televisivi e degli in­vestimenti miliardari non è mai andata a genio. Un uomo dal co­sì illustre passato, ma dalla im­magine pubblica a volte debole e stinta, riscaldata solo da quel vi­so rubizzo e dalle venuzze incre­spate sulle gote colorite, non sembrava l’ideale per una città come Roma, dove il tifo è un’ar­te e fa scuola, dove ogni bar e ogni ufficio hanno il poster della Magica in bella mostra.

Ben altra immagine aveva la sua squadra: ordinata, tecnica, esperta e soprattutto pratica. Un centrocampo stellare con Ancelotti, Prohaska, Di Bartolomei e Falcão. Una trama di piedi ot­timi e cervelli fini, che ricuciva il gioco tra i reparti, con la fitta re­te di passaggi e gli spunti perso­nali che la zona richiedeva. «Con tanti piedi buoni, sarà difficile perdere palloni e quindi faticoso per gli altri recuperarne» sosteneva il mister, spiegando la scelta di un centrocampo agli occhi di molti costruito su doppioni. I tifosi giallorossi non si lasciarono sfuggire l’occasione per incoronare il loro re di Roma, Paulo Ro­berto Falcão, genio delle geometrie e delle poesie del rimbalzo, l’uomo dai lanci milli­metrici, centrocampista dal tiro pulito sotto por­ta, la “summa” delle qualità che fanno di un giocatore un campione assoluto, con i suoi colpi d’estro, le para­bole impossibili, le traiettorie sconosciute alla fisica dei normali giocatori di calcio.

Prohaska era l’es­senzialità, la preci­sione negli appoggi e nei rilanci, l’ele­ganza innata di chi è cresciuto alla scuola danubiana. Ancelotti era invece esploso da poco tempo, per quel suo modo di stare in campo, con quella maturità che i giocatori raggiungono solo a fine carriera, quando ne hanno viste di tutti i colori. Tatticamente fondamentale, buon corridore dal calcio preciso e potente, formava con Di Bartolomei una coppia di gran­de spessore tecnico e atle­tico. Diba, ca­pitano rim­pianto da tutti gli sportivi italia­ni, aveva quel destro che solo pochi possono vantare: una punizione e lui decideva la partita, una palla morta a ven­ticinque metri dalla porta ed era già un’oc­casione importante per la sua squadra. Schiera­to spesso come li­bero, im­postava il gioco a te­sta alta, facendo valere la grande esperienza e il carisma, oltre che le indiscutibili doti tecniche. Del piccoletto Iorio si diceva che fosse un acquisto a rischio per quella fama di giocatore dal­la “dolce vita” che gli aveva impedito la completa maturazione. A Roma invece lo ricordano per i gol, gli assist, i dribbling in un francobollo d’erba, il coraggio di lanciarsi in velocità contro avver­sari che lo sovrastavano fisica­mente. Ma soprattutto viene ri­cordato per aver fatto coppia con l’idolo della Sud, il bomber Ro­berto Pruzzo, l’incubo di ogni stopper del campionato.

Avremo visto la stessa azione decine di volte: Nela o Conti scappano sul fondo, alzano la testa e indirizza­no il pallone a centro area. Il re­sto della manovra è nelle statisti­che: 131 gol in Serie A da padro­ne delle aree, con lo stacco di te­sta perentorio e impeccabile, i gol da rapinatore sotto porta e le acrobatiche realizzazioni in rove­sciata, in spaccata o in tuffo.

Luglio dell’82, Mondiali di Spagna: Pelé definì il numero 16 della Nazionale italiana il mi­glior giocatore del Mundial. E Bruno Conti, non appagato dai complimenti, andò fino in fondo vincendo quel Mondiale, con le discese folli sulla fascia interrotte da scostanti sferzate dei suoi piccoli piedi che trasudavano estro. Il vero brasiliano della Ro­ma era lui, con i lampi di tecnica purissima, la fantasia smagliante al servizio del collettivo. Se la squadra di Liedholm non buttava via un pallone, gran merito era di una difesa non solo arcigna e impenetrabile (seconda per gol subiti), ma anche in gra­do di giocare e costruire insieme agli altri reparti. A guardarlo bene, Sebastiano Nela sembrava quasi un fumetto, con la faccia dura e i muscoli pronunciati, lanciato al passo di locomotiva sulla fascia, irruente a imperversare con le sciabolate di sinistro dal fondo, ma anche a imbavagliare attaccanti pericolo­si e molto più celebri di lui. E se dalla parte opposta del campo hai Maldera che, magari in modo meno spavaldo e prepo­tente, fa lo stesso lavoro di attac­co e difesa, ti accorgi che i ruoli dei giocatori della Roma in fon­do sono solo una definizione per le figurine dei calciatori.

«Ringrazio quelli della pan­china, quelli come Chierico, Nappi, Valigi, Faccini…» disse il Barone nei cerimoniali post-scu­detto. E in un periodo dove i tito­lari erano… titolari sul serio, sen­za i turn-over e le rose chilometriche, l’intelligenza dei sostituti era fondamentale per gli equili­bri di una squadra, e soprattutto quando giocatori come Falcão e Conti risentivano di qualche lie­ve indisposizione, le risposte del­la panchina erano andate oltre le più rosee aspettative. A completare la squadra, i due centrali difensivi: Ubaldo Ri­ghetti, cresciuto nel vivaio della Roma, capace di ritagliarsi un notevole spazio quando Di Bartolomei assumeva compiti di centrocampi­sta, e Pietro Vierchowod, inossidabile mar­catore dal fisico e dalla velocità fuori dal comune.

PROFUMO DI VIOLA

Erano le regine, in campo e fuori, Roma e Juventus. Regala­vano emozioni, gioco e titoloni sui giornali. Alla guida delle ri­spettive società giganteggiavano Boniperti e Viola, espressione massima dell’arguzia e del senso dell’ironia. E le frecciate, a denti stretti, con gli occhi socchiusi, nelle quali trovava un certo gusto anche Agnelli col suo nobile di­stacco. «Di fronte al potere di Agnelli mi sento quasi una moz­zarella…» ironizzava Viola par­lando del Governo del calcio e degli arbitri. «Viola? È bravissimo, ha vinto il cin­quanta per cento degli scudetti del­la Roma…» repli­cava il numero uno della società bianco­nera. Ma tra i due c’era anche tanto ri­spetto, una gran si­gnorilità. Viola era co­sì: pungente, a volte antipati­co, dotato di fascino e ca­risma, soprat­tutto di intelligenza e della furbizia propria dei grandi personaggi. Aveva trovato una Rometta salva all’ultima giornata con uno 0-0 molto sbiadito ad Ascoli (anche i marchigiani si salvarono gra­zie a quel punticino…), Trigoria preda della confusione, il bilan­cio societario in tragiche condi­zioni.

Poi strappò il mister fresco di stella al Milan, acquistò Falcão, riorganizzò la società e riempì lo stadio. E, come inevitabile conseguenza, arrivarono i successi della squadra e quelli personali, come l’elezione a Senatore. Ma soprattutto vinse due volte la Coppa Italia e uno scudetto, oltre alla lotta senza esclusione di col­pi al potere e soprattutto alla Ju­ventus. Fresca di tricolore, la Roma ha la grande occasione per passa­re alla storia del calcio interna­zionale. In campionato chiude a due punti dalla Juventus, ingag­giando Cerezo al fianco di Falcão e Graziani a far coppia con Pruzzo. Ma quello che ri­marrà impresso nella memoria dei tifosi sarà la lunga cavalcata nelle notti di Coppa dei Cam­pioni.

La Roma arriva in finale all’Olimpico, contro un grandis­simo avversario: il Liverpool, squadra inglese di primissimo piano. L’Olimpico dà il meglio di sé, l’atmosfera è di quelle indi­menticabili, Roma si paralizza davanti ai televisori, molti si tro­vano nei bar per neutralizzare tutti insieme la tensione. Segna Neal, ma Pruzzo di te­sta pareggia. I novanta minuti re­golamentari e i tempi supple­mentari non sono sufficienti ad aggiudicare il prestigioso trofeo. I calci di rigore non portano for­tuna ai giallorossi, che cadono tra gli applausi di un pubblico mai così vicino alla squadra. Pri­ma di lasciare Roma, Liedholm vince comunque un’altra Coppa Italia, come regalo d’addio per cinque anni di calcio irripetibili…

IL CAMMINO DEI GIALLOROSSI

Gior.PartitaMarcatori
1Cagliari – ROMA 1-3Faccini, Loi (aut.), Iorio
2ROMA – Verona 1-0Di Bartolomei (rig.)
3Sampdoria – ROMA 1-0
4ROMA – Ascoli 2-1Prohaska, Pruzzo (rig.)
5Napoli – ROMA 1-3Iorio, Nela, Chierico
6ROMA – Cesena 1-0Pruzzo
7Juventus – ROMA 2-1Chierico
8ROMA – Pisa 3-1Pruzzo (rig.), Pruzzo, Maldera
9Udinese – ROMA 1-1Falcao
10ROMA – Fiorentina 3-1Pruzzo, Conti B., Conti B.
11Catanzaro – ROMA 0-0
12ROMA – Inter 2-1Falcao, Iorio
13Avellino – ROMA 1-1Prohaska
14ROMA – Genoa 2-0Corti G. (aut.), Di Bartolomei
15Torino – ROMA 1-1Pruzzo
16ROMA – Cagliari 1-0Falcao
17Verona – ROMA 1-1Iorio
18ROMA – Sampdoria 1-0Iorio
19Ascoli – ROMA 1-1Ancelotti
20ROMA – Napoli 5-2Nela, Ancelotti, Di Bartolomei, Di Bartolomei, Pruzzo
21Cesena – ROMA 1-1Pruzzo
22ROMA – Juventus 1-2Falcao
23Pisa – ROMA 1-2Falcao, Di Bartolomei
24ROMA – Udinese 0-0
25Fiorentina – ROMA 2-2Pruzzo, Prohaska (rig.)
26ROMA – Catanzaro 2-0Di Bartolomei, Pruzzo
27Inter – ROMA 0-0
28ROMA – Avellino 2-0Falcao, Di Bartolomei
29Genoa – ROMA 1-1Pruzzo
30ROMA – Torino 3-1Pruzzo (rig.), Falcao, Conti B.

LA ROSA DI LIEDHOLM

GiocatorePres.Gol
TANCREDI Franco30-23
VIERCHOWOD Pietro30 
FACCINI Paolo31
NELA Sebastiano282
DI BARTOLOMEI Agostino287
FALCAO Paulo Roberto277
PRUZZO Roberto2712
MALDERA Aldo261
CONTI Bruno263
PROHASKA Herbert263
IORIO Maurizio255
ANCELOTTI Carlo232
NAPPI Michele16 
CHIERICO Odoacre162
VALIGI Claudio13 
RIGHETTI Ubaldo12 
SUPERCHI Franco1 
GIOVANNELLI Paolo1