Il ricordo dell’indimenticabile Luciano Re Cecconi, perno della splendida Lazio di Maestrelli. Fatale un tragico incidente nel gennaio 1977: colpito in pieno dauna pallottola, cade mormorando: “Era uno scherzo, era solo uno scherzo…”
Un colpo di pistola, sparato a due mani. Sembra una pagina di Roma violenta e non è neppure una pagina di Roma violenta. E’ solo una tragedia d’equivoci, dove lo sparatore non può chiamarsi neppure assassino, perché avvelenato da un accumulo di violenza interiore, prigioniero come noi, come tutti, di una società disumana, ossessionata dai killer, dai fucili a canne mozze, dai baveri alzati, dai volti mascherati, dagli scippi di sera, dalle coltellate per un sorpasso. Luciano Re Cecconi non poteva saperlo, non voleva saperlo. Era rimasto miracolosamente un «naif» con l’anima d’un bambino, la società non l’aveva corrotto, il successo non l’aveva punito, sgorbiandogli entusiasmi, capacità di soffrire, gioia di vivere. Dalla terra di Nerviano, forse, aveva succhiato 28 anni fa gli anticorpi.
Figlio d’un contadino, due fratelli e una sorella, aveva imparato ben presto a saper ridere e a sapersi contentare in un cascinale che aveva intorno scorci di campagna con il colore mutevole delle stagioni e i profumi della terra rivoltata. Nel circondario sopravviveva e sopravvive un’altra Italia. «Cecco» lo raccontava spesso, amava definirsi un provinciale, negli occhi celesti la fierezza della povertà antica, fatta di silenzi e d’improvvisi scoppi di felicità. Niente paura. La vita è bella. Bastava un niente. Un bicchiere di vino buono, una balera d’estate, una dichiarazione d’amore alla prima ragazza. A Nerviano, a S. Ilario è così.
Quando Cecco era bambino si poteva dormire ancora con l’uscio di casa accostato, tutti si volevano bene, l’ospitalità e l’altruismo erano regole imprescindibili della comunità. Proprio da questi slanci genuini, proprio una breve squisita accoglienza deve aver sollecitato Vittorio Emanuele II di ritorno dalla battaglia di Magenta, a concedere un Re come prenome a gente tanto educata, laboriosa, sanguigna. «Così la vita mi ha dato anche un Re, davanti al cognome – raccontava ai primi diaristi, i denti radi, i capelli biondi spettinati – come a molti della mia terra. L’episodio di Vittorio Emanuele ormai viene tramandato da generazione in generazione. Ne siamo orgogliosi. Credo che allora i miei antenati fossero riusciti perfino a commuoversi, dopo l’editto…»
I ricordi adesso ammalano la memoria, sembrano perfino crudeli ed ingombranti. Una frase, «fermi tutti è una rapina», che in altri tempi serviva anche nei giochi dei bambini, a guardie e ladri, è diventata un incubo per i giocatori della Lazio, per una città sbigottita, per un quartiere bene come la collina Fleming, dove Cecco è stramazzato, dopo l’ultimo gioco, farfugliando al compagno Ghedin: «aspetta, aspetta, vengo via anch’io…». Adesso si guardano le istantanee scattate nei giorni più felici: il Cecco con la maglia della nazionale, il Cecco nel giorno dello scudetto che beve champagne in coppa. Aveva un debole per lo champagne, mormora Martini.
Le testimonianze s’intrecciano. Viene da pensare che sia stato ucciso perché colpevole di troppa felicità, in un mondo dove è ormai vietato scherzare. Ma Re Cecconi non poteva saperlo, non voleva saperlo. perso dietro chissà quali sogni, un antesignano dei centrocampisti che prima o poi dovranno servire al calcio italiano, per rimanere al passo coi tempi, per sincronizzarsi con l’atletismo dilagante. Dopo averlo provato come attaccante, totalizza 33 presenze nella stagione successiva da centrocampista. Ormai a Nerviano sanno che non tornerà più a fare il carrozziere, anche se a Cecco piaceva. I giorni passano svelti. Ecco che il Foggia lo vuole. A Foggia c’è un allenatore buono, un gentiluomo che insegna calcio a bassa voce e sa capire anche i più inquieti, anche i piantagrane. E’ Tommaso Maestrelli. Con Re Cecconi, Maestrelli, dopo la prima stagione di ambientamento, può far decollare il Foggia verso la A. A centrocampo c’è un motore rombante.
Comincia da quella città, dal Sud ancora calcisticamente depresso, un breve misterioso tragico viaggio parallelo, che il destino interrompe con solo un mese e mezzo di differenza da una vita all’altra. Con il Foggia in serie A, Luciano Re Cecconi, esordisce il 4 ottobre 1970, contro il Milan. E’ sempre calmo, pagato, capace di sacrificarsi per i compagni, di risolvere i loro problemi. I guai degli altri sono anche i suoi. E Maestrelli lo imposta e lo forgia con pazienza, il ragazzo è duttile e tenero, percettivo e compagnone. Ma ecco che il Foggia viene retrocesso per differenza reti.
E’ una retrocessione-beffa, col sapore amaro d’una truffa. Con stile, Re Cecconi, parla di certi arbitraggi, ma poi taglia corto e con convinzione assicura: «ci rifaremo. Non può finire qui…». E’ già un predestinato, legge libri gialli e narratori moderni, ascolta musica, si annoia durante gli intrattenimenti mondani. Per vivere bene vuole sempre qualcosa di nuovo Maestrelli passa alla Lazio e non appena la società romana ritorna in serie A, non può dimenticarsi di Re Cecconi, dell’allievo dei giorni grami della retrocessione ingiusta. Ma c’è da superare l’ostacolo Lenzini…
Lenzini è un bonario taccagno, che per niente al mondo avrebbe voglia di sborsare trecento milioni, affinché il decantato centrocampista a lui ignoto, si trasferisca a Roma. Maestrelli costringe Lenzini a salire su una macchina e ad uno svincolo dell’autostrada che corre verso il sud, l’affare viene perfezionato con il presidente Fesce. Maestrelli ha detto a Lenzini: «se non sarà contento, lo pagherò io. Non ci sono problemi..».
A Roma, Re Cecconi innesta la sua storia di gladiatore generoso, di propulsore inesauribile, in un triennio incredibilmente felice, ravvivato da uno scudetto che manca alla città da trentadue anni. La curiosità dilaga. Non è possibile, si dice in giro, che una squadra di anonimi presi dalla strada, come nei film del primo neorealismo, possa dare la paga ai sontuosi squadroni del nord grasso e milionario. Re Cecconi è sempre modesto. Modesto anche quando lo chiamano in Nazionale, perché è diventato il «Cecco Netzer» degli ex poveri, nel culto popolare.
E’ una Lazio stupenda, carica di vita, di bravura, di liti furiose, di risate di gioia. Passerà presto. Ora ci accorgiamo amaramente che tutto passa presto e che vivere è solo breve smarrimento. Però Re Cecconi non poteva saperlo, non voleva saperlo. Non vorrebbe neppure credere all’evidenza. Allorché la Lazio dei corsari invincibili lentamente si sgretola e corre verso il suo crepuscolo, in coincidenza della spaventosa malattia che colpisce Tommaso Maestrelli.
Meno male che ha una moglie candida, Cesarina, una delle sue parti, col suo stesso stupore negli occhi e la stessa gioia di vivere. L’ha sposata nel 1974, dopo l’ebbrezza dello scudetto. Fa niente che la Nazionale di Bernardini lo abbia dimenticato dopo un’apparizione a Belgrado e una mezza apparizione a Genova. Sa che non è giusto, ma in famiglia ritrova tutto ciò che vuole e «il di più» lo offrono sempre la Lazio, l’Olimpico, i viaggi, i riconoscimenti tuttora intensi. Per uno partito da Nerviano, da un cascinale con scorci profumati di campagna, è sempre tanto. E meno male che alla Lazio ha trovato un amico, anche lui stupito di troppa fortuna. Si chiama Luigi Martini, corre come e più di lui, insieme dano l’idea di formare una Maginot calcistica furiosa e vincente. Re Cecconi e Martini, Martini e Re Cecconi. Chi è laziale, chi a Roma vive un po’ anche di fatti calcistici, non può dissociare per cinque anni i due cognomi, non può parlare dell’uno senza parlare dell’altro. «Ricordo che mentre stiamo per buttarci da 600 metri, il Cecco mi fa: e se poi non si apre il paracadute… Ed io: Cecco, ma ci pensi adesso…?». Martini racconta e piange. Una città piange, ci sono in giro le stesse facce stravolte che accompagnarono Maestrelli al cimitero di Prima Porta. Come è accaduto? Perché è accaduto?
No, «Cecco» non poteva sapere che qualcuno dei suoi innocui giochi fosse pericoloso. Negli ultimi tempi era felice, perché il dott. Ziaco gli aveva finalmente assicurato che sarebbe rientrato in squadra a fine mese. «Da quella partita col Bologna – mormora Martini – era diventato un po’ nervoso. A non giocare soffriva. Aveva subito un brutto infortunio, ma ormai era passata. Lo vedevo dalla sua allegria. Era tornato a scherzare con tutti, a girare per i negozi della collina Fleming con la voglia di ridere, tra gli amici e i suoi ammiratori. Anche con le nostre mogli si era sempre insieme. Cecco aveva due bambini e seguiva con trepidazione i loro progressi…».
Poi una sera e un’ora qualsiasi. Una detonazione paralizzante. E’ la solita rapina, mormora Renzo Rossi, che non ha seguito Re Cecconi, Ghedin e il profumiere, dall’orefice Bruno Tabocchini (che aveva subito due furti negli ultimi mesi). Un ragazzo biondo, che ai romani ricorda soprattutto la Lazio viva e ardente dei successi, crolla sotto il bancone d’un orefice e Ghedin dopo qualche attimo lo implora: «Dai, andiamo, basta con lo scherzo..». Una macchina della polizia, a sirene spiegate, lo trasporta al San Giacomo. Proprio lui, proprio uno dei pochi, se non l’unico, della sua squadra a non possedere il porto d’armi.