Quando le regole le facevamo noi

L’obiettivo è chiaro: un calcio più spettacolare, anche grazie alla tecnologia, è ancora più vendibile. Ma sarà davvero ancora divertente come quello che da ragazzi hanno giocato tutti, compresi i campioni di oggi?


Londra, 26 ottobre 1863: nella Taverna dei Framassoni (o Liberi Muratori), in Great Queen Street, i rappresentanti di undici club fondano la Football Association e scrivono le regole del calcio. Negli anni successivi introdurranno il fuorigioco, gli arbitri, i calci di rigore e di punizione, la regola del vantaggio. Da allora sono state poche le novità: la sostituzione per infortunio è datata 1968. I tre punti per la vittoria e i nomi e i numeri fissi sulle magliette, al pari di quelli dell’autobus, sono novità degli anni Novanta generate dal connubio fra media e sport: i media sono arrivati a scoprire che lo sport, il calcio in particolare, è spettacolo di enorme interesse e lo sport ha scoperto che i media portavano visibilità e denari.

In piena crisi economica i costi per mantenere alta la spettacolarizzazione dello sport si stanno dimostrando esagerati: il mondo dei motori (motoGP e Formula Uno) si è già ridimensionato, altre discipline lo seguiranno. Il desiderio di una sempre nuova commercializzazione del prodotto ha trovato un nuovo complice nella tecnologia, ingaggiata, solo apparentemente, allo scopo di eliminare, nello sport, l’errore umano, quello degli arbitri e dei giudici. Tecnologie che non hanno solo lo scopo di garantire giustizia negli episodi più discutibili (rigori e gol fantasma), ma mirano ad aumentare gli intervalli per offrire nuovi spazi alla pubblicità. Il principale sponsor tecnico planetario, che produce anche palloni, ha già messo a punto un sistema di sensori che non è entrato, per ora, in produzione solo per i costi troppo alti.

L’obiettivo è chiaro: un calcio più spettacolare, anche grazie alla tecnologia, è ancora più vendibile. Ma sarà davvero ancora divertente come quello che da ragazzi hanno giocato tutti, compresi i campioni di oggi? I rettangoli di gioco non avevano lati ed erano cortili, piazze, prati e spiagge. Ognuno di noi ha i propri ricordi indelebili: i miei sono la porta del garage sul cortile che rimbombava ad ogni gol, la spiaggia di Omaha Beach, quella dello sbarco in Normandia, con la marea che si alza e cancella le porte improvvisate, il campo in pendenza, con i pali asimmetrici, sui prati sconnessi, a discapito delle caviglie, dell’alpe in Val Badia.

Due capitani facevano le squadre, in piedi al centro: bim, bum, bam e a pari e dispari si contendevano i giocatori a disposizione. Quando mia madre mi regalò il primo pallone di cuoio e lo mostrai fiero, compresi che chi lo porta diventa capitano: evitai così la frequente umiliazione d’esser scelto per ultimo. Non c’era l’arbitro: a rendere le regole, condivise sul momento, serie e vere era il silenzioso patto d’onore stretto fra i giocatori: Non c’è fuorigioco, si può passare al portiere, fallo laterale con i piedi, non vale il gol su rinvio. Se un lato del campo era un muro era richiesta un’ultima decisione: Vale la sponda?, ossia la palla che tocca il muro è da considerarsi uscita o resta in gioco? Fungevano da pali zainetti e maglie, in spiaggia ciabatte incrociate a mo’ di tenda indiana: la porta era cinque passi o sette, i passi dell’una e dell’altra mai uguali, raramente parallele le porte. Se la palla superava il portiere quello gridava: Palo! o, meglio ancora: Traversa!, e chi aveva toccato con la mano giurava sempre assoluta involontarietà: benevoli concessioni alla fantasia che scatenavano più risate che risse.

I lati irregolari sconsigliavano la battuta dal calcio d’angolo, sublimato da corner-tre-rigore, una formula secca che non richiedeva moviola e che induceva i difensori a rinviare in avanti e i portieri a sforzarsi di trattenere la palla. Quando la superiorità sul campo era evidente, il capitano avversario concedeva il voi, portiere volante, l’eresia che si faceva prassi, permettendo al portiere di lasciare la porta, avanzare, persino tirare a rete. Più umiliante risultava la frase: Se volete, cambiamo squadre, a cui i perdenti offrivano sempre sdegnato rifiuto.

Se un giocatore andava a casa e si restava in numero dispari, si passava alla porta romana: una porta sola con un portiere neutro e le due squadre che cercavano entrambe di segnarvi, ma con almeno un passaggio fra compagni prima di poter calciare a rete. Quando le forze venivano meno e cominciavano a saltare gli schemi, il capitano dei perdenti lanciava l’ultimo accorato appello: Facciamo che chi segna questo gol vince?. La partita finiva solo quando calava il buio, l’ora fissata dai genitori per il rientro. Vedere che molti dei nostri ragazzi continuano a gustare i miracoli del calcio fai da te fa sperare che in giro ci saranno sempre sportivi che amano giocare e vedere il football e non insopportabili discussioni e invadenti spot pubblicitari.

Testo di Francesco Di Chiara – www.cittanuova.it