Miguel Angel Montuori, campione di sfortuna

Miguel Angel Montuori: assieme al campione del mondo Antognoni, il numero 10 più grande e più amato della storia della Fiorentina. Un grandissimo campione che seppe affrontare a testa alta un interminabile calvario fatto di di infortuni e malattie

Miguel Angel Montuori è stato, assieme al campione del mondo Antognoni, il numero 10 più grande e più amato della storia della Fiorentina. Arrivò in Italia nell’estate del 1955, su suggerimento di un sacerdote italiano, padre Volpi, che aveva caldamente raccomandato l’estroso cannoniere della Unìversitad Catolica di Santiago a Giachetti, direttore sportivo della Fiorentina. Padre Volpi era stato giocatore di calcio e sapeva il fatto suo, ma certo quell’argentino dal volto triste, perdipiù proveniente da un movimento calcistico non certo brillante per risultati come quello cileno, fece storcere la bocca a più d’uno, nel capoluogo toscano.

Poi il campo si incaricò dì spazzar via ogni perplessità. Montuori era piccolo e compatto, aveva lineamenti da indio e movenze da fuoriclasse: inventiva, genio e senso del gol straripanti. La Fiorentina, allenata dal maestro Bernardini, vinse subito lo scudetto e nei quattro campionati successivi ottenne quattro clamorosi secondi posti.

Il 1961 fu l’anno fatale, per Michelangelo (italianizzazione quasi obbligata, visto che l”oriundo” aveva giocato anche in Nazionale). Assente per infortunio, quando si sentì pronto venne mandato in campo dall ‘allenatore Hidegkuti nel campionato riserve, a metà settimana, per provarne le condizioni. Si giocava a Perugia; a un certo punto il portiere viola rinviò lungo, la palla scavalcò Montuori e un difensore locale alle sue spalle la respinse con forza. Il pallone colpì l’argentino tra tempia e orecchio, con inaudita violenza. Montuori svenne, restò a lungo privo di sensi negli spogliatoi prima che il medico sociale, Giorgio Giusti, riuscisse a svegliarlo. Non venne giudicato indispensabile un ricovero in ospedale.

Montuori tornò a casa, dormì tranquillo, ma al mattino scoppiò il dramma: il giocatore vedeva le immagini doppie. Diplopia, sentenziarono i medici. La cura: immobilità assoluta a letto. Montuori, che aveva appena 28 anni, vi rimase tre mesi, il tempo giudicato necessario dai sanitari per l’assestamento preoperazione. In giugno il professor Frugoni a Padova visitò il paziente ed emise il verdetto: col calcio aveva chiuso, ora si poteva intervenire chirurgicamente per risolvere il problema.

Il poi lo raccontò lo stesso Montuori: «Dopo l’operazione le immagini tornarono nitide, ma il cervello rimase confuso. Mi avevano chiuso la carotide destra, dovevo restare così per ventiquattr’ore, ma nella notte sopraggiunse la paralisi totale della parte sinistra del corpo: mi riportarono d’urgenza in sala operatoria. Mi salvai, ma mi ritrovai in uno stato di confusione mentale. Andavo dal giornalaio, afferravo non il giornale richiesto, ma il primo che mi capitava. Quando cominciavo un discorso non riuscivo a concluderlo. Dissi a mia moglie: non voglio più vedere nessuno. Mi rifugiai in casa, mi isolai. Fai lavorare il cervello, mi raccomandavano i medici, e io mi iscrissi a un corso di scacchi per corrispondenza. Facevo ginnastica e giocavo a scacchi, queste erano le mie giornate. In quei mesi ho vissuto in un altro mondo».

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Un vero calvario. Finalmente, nel gennaio 1962, Montuori uscì di casa, andò dal giornalaio e prese la copia giusta: era guarito. Si mise a fare il giornalista per un foglio locale, rivelando una scrittura garbata e fantasiosa, ma un mattino i problemi ricominciarono: si svegliò con un terribile mal di testa. Dopo qualche mese, perduto il lavoro di cronista per la chiusura del giornale, l’ennesima visita medica rivelò l’orìgine dell’emicrania: un aneurisma. Tornò sotto i ferri, nel 1963, al Careggi di Firenze. Dovette pagarsi l’operazione, ne uscì guarito ma irrimediabilmente segnato.
Provò ad avviare una nuova carriera, quella di allenatore. Aveva trentun anni appena, una classe immensa e l’alone che ancora circondava il suo mito di campione. Si applicò con squadre toscane minori: Pontassieve, Aglianese, poi, su intervento della Fiorentina, le giovanili del Montecatini. Gli faceva difetto, tuttavia, la vocazione del grande tecnico: «Non ho il temperamento» riconobbe, «non sono capace di trasferire agli altri, per intero, le mie idee».

E poi, in agguato, c’era sempre la sfortuna: venne operato d’ulcera e più tardi sopravvenne un’ernia del disco. Un’altra carriera appena avviata se ne andava in pezzi. «A quel punto eravamo in difficoltà finanziarie, ma non avrei mai accettato la beneficienza. In Italia non avevo più prospettive e mia moglie, in quelle condizioni, cominciò a sentire nostalgia di casa. Un giorno del 1971 tornammo tutti a Santiago, io, mia moglie Teresa e i nostri quattro figli. Avevamo i soldi, perché avevamo venduto l’appartamento di Via dei Mille».
In Cile tornò nel mondo del calcio, allenando piccole squadre e poi i giovani dell’Universitad Catolica. Due figli, Olivia e poi Angelo, tornarono in Italia per studiare e si sistemarono nel Bel Paese. La voglia di rimettere piede a Firenze era grande, «ma il viaggio costava troppo, per me e per mia moglie».

Firenze però ha il cuore grande e i tifosi gigliati ancora di più. Giugno 1988, l’orgoglio viola organizza una festa memorabile, “I dieci più”, per riunire i grandi numeri dieci della storia del club, un omaggio alla leggenda della squadra scritta dai grandi artisti: Montuori, De Sisti e Antognoni. La festa si tiene il 2 giugno in un locale di Campi Bisenzio. A fine maggio, Miguel Angel e sua moglie Teresa rimettono piede in Italia. E trovano ad aspettarli tanti amici, quanti solo la sua immensa classe di campione e la sua umanità potevano giustificare: «Ero a Lido di Camaiore, dove mi avevano prenotato l’albergo. Avevamo finalmente conosciuto i nostri nipoti, i figli di Olivia: Debora, 9 anni, e Marco, 4 anni, erano quasi grandi e non li avevamo mai visti». Gli telefona Rosetta, prendono appuntamento e poi arrivano anche Virgili, Orzan e tutti gli altri, tranne Julinho, che vive a San Paolo in Brasile, e Segato, morto giovane.

È il 29 maggio, in una cena della nostalgia si riuniscono a Firenze i reduci dello scudetto, tutti insieme accerchiano affettuosamente Miguel, che ha i capelli bianchi e un pizzico di commozione nel cuore: tu rimarrai a Firenze. Gli trovano casa all’Isolotto e la arredano, pregandolo di accettare il regalo, un bellissimo gesto di amicizia, non certo di beneficienza: «Portarono tutto» ha ricordato la moglie, Teresa, «dai mobili ai servizi di cristalleria alle posate, come si fa per gli sposi novelli». Il Comune gli trovò lavoro, addetto alla biblioteca, ed Elio Boschi, presidente del Calcio Isolotto, gli affidò la selezione dei giovani talenti: fu lui a segnalare Francesco Flachi, passato a 13 anni alla Fiorentina per 40 milioni. Poi arrivatò la pensione, sia pure minima, accompagnata da quell’instancabile lavoro coi giovani sui campi, protratto fino a tarda sera, con l’entusiasmo di sempre.L’ultimo colpo d’ala della sfortuna lo tornò a colpire con un male incurabile, che lo portò via il 4 giugno 1998.