Il disastro italiano di Monaco 74 raccontato da Sandro Mazzola, al suo terzo e ultimo Mondiale. Che con Stoccarda finirà anche la sua lunga carriera azzurra
Sandro Mazzola ha disputato tre campionati del mondo: Inghilterra, Messico, Germania ed è uscito dalla Nazionale, proprio dopo il suo mondiale più bello. Direttamente dalla sua memoria, ecco il racconto di tutti i retroscena di quell’avventura.
«Andammo al mondiale con troppa spavalderia, eravamo sicuri di diventare campioni del mondo. Non c’era più l’atmosfera che in Messico ci aveva permesso di finire secondi dietro il grande Brasile. Visto quello che è successo, si deve ammettere che le scelte erano state fatte male».
— Tutta colpa di Valcareggi, dunque?
«Per carità, non sono qui per fare processi! E anzi premetto che le colpe sono di tutti. Me le piglio anch’io, che pure ne ho meno degli altri. Rientrai in Italia a testa alta. Tutti i giornali scrissero che ero stato il migliore degli italiani. Uscimmo subito dalla scena ed è difficile rimanere alla ribalta sino in fondo quando si è eliminati al primo turno. Eppure, quando si fece la squadra ideale dei mondiali 1974, vi trovai anche il sottoscritto. Servì ad addolcirmi un po’ la pillola. Dopo l’eliminazione, il nostro pullman era stato preso d’assalto dai nostri emigranti e ce la vedemmo brutta. Ma ancor oggi, quando incontro qualche italiano in Germania, mi sento dire: guarda, Sandro, che non ce l’avevamo con te. Ma anche questo non è giusto. Perchè le partite si vincono e si perdono in undici. E io fui uno di quegli undici».
– Però ha appena detto che l’eliminazione dipese da chi era in panchina…
«Ho detto che furono fatti errori di scelte, ma in questo senso. Per un mondiale è molto importante anche la scelta dei secondi undici, cioè di quelli che completano la lista dei ventidue. Per i primi undici va tutto bene, sono titolari, hanno il morale alle stelle. Bisogna però che chi resta fuori accetti volentieri di fare la riserva, altrimenti sono dolori. In Germania, invece, questo non successe. E la squadra non fece più blocco come in Messico».
– In Messico c’era stata la sparata di Rivera contro Mandelli e quindi contro di te, perché il bersaglio eri tu.
«Ma tutto si limitò a una staffetta, il resto era tranquillo. Nel 1974, invece, le polemiche erano cominciate a Coverciano, quando Valcareggi distribuì i numeri delle maglie e Juliano protestò perché aveva un numero troppo alto».
– Italo Allodi avrebbe voluto rispedirlo subito a Napoli, ma Valcareggi disse che non voleva turbare la serenità dell’ambiente. E anche in Germania si oppose alla cacciata di Chinaglia dopo quel gesto alla panchina…
«Il gesto di Chinaglia lo videro soprattutto in televisione, lo non me ne ero nemmeno accorto, lo seppi alla sera, telefonando in Italia. Ma più che di atteggiamenti dei singoli io parlerei di atmosfera generale».
– Re Cecconi, con i compagni della Lazio, si era lamentato perché si continuava a dar fiducia alle vecchie glorie, cioè a te e Rivera, la confidenza era stata captata da un giornalista e trasmessa dalla sua agenzia…
«Diciamo che c’erano troppi clan, non c’era lo spirito di corpo che è necessario in competizioni come queste, quando bisogna stare un mese assieme».
– Tu a che clan appartenevi?
«lo mi ero fondato un clan personale, ossia vivevo per conto mio. Avevamo camere singole, dall’Italia mi ero portato dei libri, pensavo ai fatti miei. Ti dirò di più: penso di aver giocato bene proprio perché ero stato pure il commissario tecnico di me stesso, nel senso che avevo deciso io la mia preparazione dei mondiali. Cioè: prima dei mondiali dieci giorni di bagordi, poi ripresa dei lavori, come se si trattasse del precampionato. All’inizio ero convinto di aver sbagliato tutto, mi sentivo imballato. Poi, in pochi giorni, avevo ritrovato la forma migliore. Non è vero che si arriva al mondiale stanchi, perché siamo stressati dal campionato. E’ vero che le altre nazioni si preparano in maniera diversa da noi. Ma penso che noi italiani non saremmo nemmeno tagliati per stare tre-quattro mesi in ritiro a concentrarci sul mondiale come fanno ad esempio gli argentini. Soffriamo la clausura, abbiamo nostalgia della famiglia. Ma tra la fine del campionato e l’inizio del mondiale c’è quasi un mese di tempo. Ebbene dieci giorni di questo mese dovevano essere concessi per un relax distensivo».
– Ritorniamo agli errori di Valcareggi. Probabilmente in Germania ha sentito la mancanza di Mandelli, oppure gli è mancato il Riva del Messico. Qual è il tuo pensiero?
«Certo, il Riva del Messico era un’ altra cosa. In Germania Gigi, nella partita decisiva contro la Polonia, fu addirittura escluso assieme a Rivera, anche perché non stava bene».
– Il presidente della Federcalcio, Franchi, sostiene che in Germania fummo eliminati da Haiti.
«Indubbiamente non superammo il turno per la differenza reti, perché eravamo finiti a pari punti con l’Argentina. Ma noi non abbiamo la mentalità per affrontare queste squadre-materasso. Le consideriamo appunto materasso e quindi ci viene a mancare la carica. Gli inglesi, i tedeschi, non si ritengono soddisfatti nemmeno se hanno segnato cinque gol, continuano imperterriti. Noi, contro Haiti, ci fermammo a quota tre, e ci ritenemmo soddisfatti perché erano andati addirittura in vantaggio loro. Quando segnò Sanon pensammo tutti a un’altra Corea. E io più dì tutti, dato che avevo conosciuto pure Pak Doo Yk».
– I critici scrissero che Valcareggi sbagliò le marcature contro l’Argentina perché non conosceva Houseman. Scese in campo con la maglia numero dieci e lo considerò un centrocampista
«Si tratta dei soliti pettegolezzi senza fondamento. Noi tutti, Valcareggi in testa, avevamo assistito a Polonia-Argentina. Houseman all’ inizio non giocava, poi il CT Cap lo mise dentro e cominciò la rimonta dell’Argentina. Houseman impressionò tutti per la sua vivacità».
– E Valcareggi lo affidò a Capello, cioè al più lento dei nostri centrocampisti…
«Questo è un altro discorso. Poi comunque venne spostato su di lui Benetti. I critici scrissero però che ormai era troppo tardi, la partita era decisa».
– Contro l’Argentina avesti di nuovo la maglia numero 7. E’ vero che avevi il complesso di quel numero?
«In Nazionale avevo cominciato con il 9 e ho finito con il 10 contro l’Argentina. Con Valcareggi comunque accettai il 7 soprattutto perché non mi andava a genio la soluzione della staffetta, la trovavo assurda. Siccome nessuno voleva il 7 lo presi io. E ricordo che a Cagliari contro la Spagna mi presi pure i fischi (e le arance) perché quella era la maglia di Domenghini. Però alla fine, anche a Cagliari, uscii tra gli applausi. Tuttavia mi sono pentito più volte di aver accettato il 7. Perché all’inizio mi avevano detto: nel calcio moderno i numeri non contano, prendi quel numero poi fai il tuo solito gioco. Invece poi visto che avevo il 7 pretendevano che facessi l’ala destra».
– Contro la Polonia perdeste la partita e l’ultimissima speranza. Il CT Gorski rivelò che qualcuno dell’Italia aveva cercato di addomesticare il risultato, dato che la Polonia si sarebbe qualificata per i quarti di finale anche con un pareggio. Cosa c’è di vero in questo scandalo?
«lo personalmente l’ho letto sui giornali. Noi giocatori, in Germania, non abbiamo saputo nulla. O meglio so che non abbiamo perso da una squadra irresistibile. La Polonia era ormai in fase calante, anche per via dell’età dei suoi giocatori migliori, Deyna e Gadocha. Dopo i mondiali del ’74, la Polonia non è stata più lei, il boom è finito. Noi a Stoccarda perdemmo anche per sfortuna e per l’arbitro. Potevamo chiudere il primo tempo in vantaggio per 2-0. Anastasi fu atterrato sulla linea ma il tedesco dell’Est Weyland non concesse il rigore. Chinaglia avrebbe potuto facilmente segnare di testa, invece colpì il pallone con la spalla».
– Al ritorno in Italia che accoglienza riceveste?
«Alla Malpensa c’erano solo quattro gatti, il processo ce lo fecero sui giornali. Ma pochi intuirono come stavano le cose. E cioè che eravamo stati eliminati perché non c’era lo spirito di squadra, appunto perché era stata sbagliata la scelta delle riserve e che ci aveva fregati la presunzione perché, dopo il secondo posto del Messico, tutti ci avevano dati favoriti. Ci sentivamo già campioni del mondo prima ancora di aver superato il primo turno».
– Fosti giudicato il migliore, ma fosti anche il primo ad uscire.
«In Italia si gode da matti a togliere giù chi è sul piedistallo. Questo avviene in cose ben più serie, figuriamoci nel calcio che in fondo è un gioco. Bernardini convocò me e Rivera in quell’allenamento burletta di Coverciano prima del suo esordio in Jugoslavia. Poi mi telefonò per dirmi che aveva altre idee che comunque non mi dovevo considerare tagliato fuori per sempre. Ma io capii l’antifona e mi rassegnai. O forse sbagliai a non fare qualche telefonata alle persone giuste. So di altri che sono stati miracolosamente ripescati tramite diciamo così, le relazioni pubbliche. Ma io, come giocatore, ho sempre preteso di farmi giudicare solo sul campo, non ho mai scomodato nessuno».
– Però una sera andasti a cena con Bearzot e ti disse di tenerti pronto per giocare a Varsavia contro la Polonia.
«A Milano ci si incontra sempre. E Bearzot mi chiese effettivamente se me la sarei sentita di rientrare, nel caso avesse avuto bisogno di me. Poi le cose, per fortuna, sono andate bene e non c’è più stato bisogno del sottoscritto per qualificarsi per l’Argentina. Ma quella sera avevo detto a Bearzot che ero dispostissimo a fare il salvatore della patria. Ti dirò di più: ho smesso di giocare perché ormai non avevo più stimoli. Sapevo che anche con me in campo l’Inter non avrebbe potuto puntare allo scudetto e quindi ho preferito anticipare il mio lavoro di dirigente. Ma se avessi avuto la speranza di andare in Argentina, avrei continuato. Partecipare a quattro campionati del mondo, sarebbe stata una bella soddisfazione».