1978 – Bettega: “Quella finale era nostra…”

«Al posto dell’Olanda, contro l’Argentina dovevamo provarci noi. E’ stato il mio unico mondiale, volevo giocarmelo, mi sembrava tutto talmente sano, allegro e bello che volevo proprio giocarmelo»


Penna Bianca racconta scandendo parole e concetti senza imbarazzo. Come quando giocava al calcio, tranquillo e sicuro. Bravo da far paura, bravo da morire, jellato a tal punto da mancare il “suo” appuntamento con la “sua” nazionale: quello di Spagna. Bearzot attese l’ultimo giorno utile prima di partire per Vigo per poi arrendersi, accettare che il portiere dell’Anderlecht, Munaron, gli aveva, l’autunno precedente, strappato via l’amatissima Penna Bianca, colpendolo gravemente ai legamenti del ginocchio. Oltretutto l’unico mondiale del grandissimo Bettega divenne il mondiale, il primo mondiale, di Paolo Rossi. Scherzi che il destino gioca ad un campione. Al padrino. All’eminenza grigia. A “cabeza blanca”, come lo battezzarono per quel ciuffo di capelli candidi disegnato sulla chioma nera.
Non ero un padrino io, nemmeno un leader, ma siccome ero rompiballe venivo bollato da leader. Rompiballe in senso buono: io sono uno che parla molto, in campo, incita i compagni, consiglia, discute. Sono del parere che solo parlando ci si aiuta, si migliora, si trova concentrazione. Eppoi quella era una nazionale piena di juventini, c’erano Zoff, Cuccureddu, Cabrini, Gentile, Tardelli, Benetti, Scirea, Causio, ed il sottoscritto. Ero fra i più anziani, avevo una vecchia militanza juventina, e forse gli altri mi portavano un po’ di rispetto, così è nata la storia del leader, ecco tutto. Io volevo solo contribuire al successo collettivo, e ci siamo andati tanto, tanto vicino, allora“.

Partendo tra i fischi, dopo una catastrofica amichevole a Roma con la Jugoslavia, uno 0-0 deprimente, sepolti dalle critiche, però…
Tutto vero, ma questa è colpa del carattere italiano, niente vie di mezzo, o brocchi o campioni. Noi invece sapevamo di valere: avevamo vissuto insieme giorni difficili e splendidi, avevamo spazzato via dal girone di qualificazione l’Inghilterra, avevamo avuto esperienze sofferte e credevamo in Bearzot“.

Cioè? “Lui, il mister, aveva grande forza interiore. Non ci poteva esaltare quello zero a zero ma ci fidavamo di noi stessi, sapevamo di avere grandi mezzi. E Bearzot è uno che partecipa, vive, parla, ti sta vicino, scherza, analizza con i suoi uomini gli errori ed i pregi, compie delle scelte dolorose ma sempre in buona fede, e nessuno può discuterlo. Qualcuno continua ancora a sostenere che Rossi e Cabrini, in Argentina, furono imposti dall’opinione pubblica. Non diciamo fesserie: il cambio lo decise Bearzot, fu doloroso per lui soprattutto nei confronti di Graziani che amava molto, ma scelse per convinzione e Graziani non gli serbò mai rancore. Bearzot è uno cui non puoi voler male, è stato un grandissimo tecnico“.

Resta il fatto che nessuno s’aspettava l'”esplosione” argentina.
Poco male, noi ci credevamo, e lo capimmo dopo sessanta secondi di mondiale, al gol di Lacombe contro la Francia. Una mazzata da k.o. per chiunque. Noi reagimmo spazzandoli via. Eravamo sereni, sapevamo di essere forti“.

Che vuol dire sereni, nel calcio?
Vuol dire ridere insieme, vuol dire la corsa mattutina, alla sveglia, nell’albergo di Mar del Plata, per riuscire a mangiare le “medias lunas”, focaccine dolci e buonissime, prima che arrivassero gli altri compagni. Vuol dire che tutti gli argentini dell’Hindu Club, inservienti ed ospiti, ci adoravano. Vuol dire andare a correre sul campo da golf dell’Hindu Club. Vuol dire strapazzare l’Ungheria ed andare in campo con l’Argentina per vincere ancora, a qualificazione garantita“.

Non fu allora che voi titolari vi ribellaste all’idea di un turno di riposo e voleste giocare per forza? “Balle, decise Bearzot. In quei momenti di euforia va bene tutto, si accettava tutto, andava tutto troppo bene per fare i capricci. A noi Bearzot non disse mai nulla. Annunciò i nomi di chi avrebbe giocato, punto e basta“.

Argentina battuta da un gol favoloso di Bettega. Si andava al secondo turno col vento in poppa. E la stella era Rossi. Non le dispiaceva?
E perchè? Se Paolo era nei 22, significa che era uno vero, uno che contava. In una squadra magnifica, che s’esprimeva al meglio, anche Paolo rese al meglio delle sue doti enormi. Quell’Italia faceva calcio moderno, favoloso: prendete Causio, Tardelli, Zaccarelli o Antognoni, il sottoscritto; quattro attaccanti o quattro difensori, potevamo fare di tutto, sempre. Uno squadrone. Davvero“.

Battuta l’Argentina, si poteva pensare a vincere il mondiale…
Eravamo euforici, ma non pazzi. Sapevamo di dover combattere ancora molto. Ci accorgemmo che qualcosa stava cambiando“.

Cosa? “Avevano tutti paura di noi. Tanta. Superata l’Austria, ci venne incontro la Germania Ovest. Mai visto i tedeschi giocare un catenaccio così esplicito, così rinunciatario, come contro di noi a Buenos Aires. Incredibile. Uno zero a zero che poteva e doveva essere tre a zero per noi. Vittoria strameritata, era. Ricordo ancora il piede di Kaltz che scaccia dalla sua porta, col tacco, per sbaglio, il mio tiro, dopo un’azione fantastica con Rossi. Avessimo vinto, com’era sacrosanto, quella partita, sarebbe cambiato tutto“.

Perchè? “Perchè in quel maledetto decisivo Italia-Olanda sarebbe bastato a noi pareggiare, ed a loro vincere, per raggiungere la finale. Invece, così, era il contrario. E purtroppo noi eravamo in calo fisico. Con gli olandesi e poi col Brasile, nella finale del terzo posto, giocammo splendidi primi tempi e perdemmo nella ripresa. Arbitraggio poco amichevole, con l’Olanda. Le prime due entrate di Benetti e Tardelli vennero festeggiate da due ammonizioni: era squalifica automatica per entrambi… Intanto Neeskens passeggiava per il campo picchiando ed entrando duro, io lo capisco, è il suo mestiere, ma perchè l’arbitro non fischiava? Anche il gol di Haan nacque dall’ennesimo fallo non rilevato di Neeskens su Zoff. Dino aveva preso un duro colpo, annebbiato e incacchiato buttò la palla fuori: rimessa e bomba da trenta metri. Un mondiale si perde anche così“.

Che vuol dire, Bettega? “Che quella finale era nostra. Al posto dell’Olanda, contro l’Argentina dovevamo provarci noi. E’ stato il mio unico mondiale, volevo giocarmelo, mi sembrava tutto talmente sano, allegro e bello che volevo proprio giocarmelo“.