Mondiali 1938: un Fascio di polemiche

1938: mentre si sentivano già i cannoni della seconda guerra mondiale, gli azzurri di Pozzo furono accusati di essere i propagandisti dell’Italia fascita di Mussolini… Era questa la verità?

Un clima politico arroventato circondò il Mondiale francese del 1938 e l’Italia se ne trovò esatta­mente al centro. Ma è vero che soffiò sul fuoco mescolando sport e politica? Cominciamo ri­cordando il momento storico: 1938, di lì a poco più di un anno sarebbe scoppiata la seconda guerra mondiale, i cui fermenti già ribollivano nel cuore dell’Europa. La Francia pullulava di fuo­rusciti dall’Italia per motivi poli­tici, inevitabilmente portati a sot­tolineare l’aspetto propagandisti­co che il calcio rischiava di svol­gere, più o meno consciamente, per il Regime fascista.

Il bubbone esplose subito, in occasione dell’esordio degli az­zurri contro la Francia. Secondo il racconto che ne fece il grande Gianni Brera, la vittoria colta con grande sofferenza solo ai supple­mentari «fu una figuraccia. Dagli spalti di Marsiglia, non meno di diecimila antifascisti fischiavano spietatamente gli azzurri, colpe­voli di vincere – male – per un regime antidemocratico…».

Se­condo Roland Mesmeur, presti­gioso cronista francese, testimo­ne diretto degli eventi, la provo­cazione partì dalla stessa squadra azzurra: «Mentre il rumore dei cannoni già si faceva sentire in lontananza, il comportamento del pubblico era un omaggio alla saggezza e la testimonianza di uno spirito sportivo molto vicino alla perfezione. E se gli italiani dovettero affrontare qualche pro­blema fu solo perché chi aveva dovuto lasciare la patria per ra­gioni politiche trovò nello sport il mezzo migliore per esprimere i propri rancori. L’elegante Vitto­rio Pozzo, grande giornalista “ri­ciclato” nel ruolo di allenatore della nazionale azzurra, non trovò nulla di meglio, per rinfor­zare l’unità morale dei propri uomini, di un doppio saluto romano davanti al pubblico di Marsiglia prima del match iniziale con la Norvegia. Questa forma di… do­ping psicologico, però, non diede i frutti sperati, tanto è vero che la vittoria arrivò solo ai supple­mentari e grazie soprattutto ad una grande prova del portiere Olivieri».

Allora Pozzo era un provocatore? Ecco la sua campa­na, tratta dalle sue memorie:
«Partiamo per Marsiglia, dove ci attende la Norvegia. E qui piombiamo subito in piena tempesta. La partita viene avvolta imme­diatamente in uno sfondo polemico-politico. Ingiustamente. Perché i giuocatori nostri non si sognano nemmeno di farne, della politica. Rappresentano il loro Paese, e ne portano naturalmente e degnamente i colori e le insegne. Nello stadio sono stati portati circa diecimila fuorusciti italiani, coll’intenzione e l’ordine di avversare al massimo la squadra azzurra. Il momento critico è quello del saluto: quando i giuocatori nostri alzeranno la mano per salutare alla moda fascista, deve scoppiare il finimondo. Io vengo avvisato di quanto ci attende. È una sfida diretta al nostro temperamento, al nostro carattere. Come comandante so con precisione quale sia il mio, il no­stro dovere. A parte ogni altra considerazione, conosco anche quale effetto deleterio avrebbe sul morale dei giuocatori, il cedere pubblicamente ad una inti­midazione, prima ancora che la prima delle nostre gare abbia inizio. Vado in campo colla squadra, ordinata alla militare, e mi pongo sulla destra. Al saluto, ci accoglie come previsto una bordata solen­ne ed assordante di fischi, di insulti e di improperi. Pare di essere in Italia tanto le espressioni a noi rivolte echeggiano nell’idioma e nei dialetti nostri. Quanto sia durato quel putiferio, non so dire con precisione. Stavo rigido, con una mano tesa in posizione orizzontale, e non potevo naturalmente prendere il tempo. L’arbitro germanico ed i giuocatori norvegesi, lì sul campo a lato nostro, stavano a guardarci con aria preoccupata. Ad un dato punto il gran fracasso accennò a diminuire, poi cessò. Ordinai l’attenti. Avevamo appena messo giù la mano, che la dimostrazio­ne riprese violenta. Subito: «Squadra attenti. Saluto». E tor­nammo ad alzare la mano, come per confermare che non avevamo paura. Non durò a lungo, la seconda parte della manifestazione, anche perché il pubblico francese e quello neutrale dicevano chiaro di averne abbastanza e di voler veder giuocare. E noi, pa­ghi di aver vinto la battaglia del­la intimidazione, giuocammo».

Vittorio Pozzo, ormai è accer­tato, non era fascista. Non posse­deva neppure la tessera del parti­to, quando si lasciò convincere a prendere in mano le redini della Nazionale per il periodo più lun­go e fortunato. Non solo. Nel “fondo Pozzo”, posto sotto tutela dal Ministero dei Beni Culturali, esistono documenti che ne com­provano l’attività a favore dei partigiani (uno recita testualmen­te: «Si dichiara che il Comm. Vit­torio Pozzo ha collaborato fin dal settembre ’43 con questo CLN con compiti di orga­nizzare gli aiuti ai prigionieri al­leati e il loro passaggio in Svizze­ra».

Nonostante questo, gli toccò nel dopoguerra, una volta lascia­ta la squadra azzurra, una sorta di avvilente esilio, al punto che il nuovo stadio di Torino, qualche anno fa, non gli è stato intitolato per via delle “compromissioni” col Regime fascista. Di certo, la sua vittoria nel clima ostile che circondò la squadra azzurra in Francia (il pubblico francese af­fiancò i fuorusciti italiani nell’osteggiare gli azzurri) fu la prova più inoppugnabile del valore suo e degli uomini che aveva scelto. Riuscendo ad annacquare di mol­to le polemiche sorte attorno al primo titolo, vinto in casa, nel clima più favorevole.

Di più: quando il valore della squadra emerse al di sopra delle contin­genze e delle situazioni, la conte­stazione apparve per ciò che era: un pesce fuor d’acqua, in una manifestazione a esclusivo carat­tere sportivo. E infatti il pubblico della finale, per quanto tifasse apertamente per i nostri avversari ungheresi, finì col dimenticarse­ne alla fine, entusiasta dello spet­tacolo offerto dalle due squadre e segnatamente dai vincitori.