Iran: la rivoluzione del pallone

Da Reza Shah che introdusse questo sport in Persia alle fascette verdi mostrate da sei giocatori il 17 giugno 2009 a sostegno di Moussavi e delle sue accuse: la lunga partita del calcio iraniano contro l’integralismo


La Rivoluzione ha inizio con una verticalizzazione. È il 29 novembre 1997, a Melbourne. Ali Daeei, leggenda della nazionale iraniana, supera in rasoterra la trappola del fuorigioco australiana. Khodadad Azizi segue il pallone e, senza bisogno di ammaestrarlo, scocca di destro dal limite dell’area, superando il portiere australiano Mark Bosnich. Un pareggio insperato, giunto al 79’: solo tre minuti prima, con l’Australia in vantaggio 2-0, Karim Bagheri aveva riaperto la partita segnando la prima rete iraniana. Con l’1-1 dell’andata a Teheran e grazie alla regola delle reti segnate fuori casa, il 2-2 finale vale un biglietto per la Francia, Coppa del Mondo 1998.

Era dal 1978 che l’Iran non partecipava a un Mondiale di calcio: un anno prima che la Rivoluzione Islamica deponesse lo shah Mohamed Reza Pahlavi, instaurasse il regime integralista dell’ayatollah Khomeini e riportasse in auge il velo e la Shari’a. La qualificazione al Mondiale accende negli iraniani la speranza che questo ritorno rappresenti qualcosa di più del mero evento sportivo: dopotutto jam-e jahani (Coppa del Mondo) e jame’e jahani (società mondiale) hanno pronunce molto simili in lingua farsi. La speranza degli iraniani, espressa tramite il loro amore per i giochi di parole, trova spazio anche nel nome di battesimo di Azizi: Khodadad, Dono di Dio.

29 novembre 1997, Teheran. La qualificazione al Mondiale, evento storico, viene salutato con grandi festeggiamenti. Le strade di Teheran e le vie dei villaggi si riempiono di folla: una nazione si infiamma di passione per il risultato dei propri beniamini. Alcol e musica pop occidentale, vizi da tenere ben nascosti dietro le porte di casa, escono allo scoperto. Alcune donne infrangono i divieti e scendono in strada, ballano. Qualcuna arriva perfino a levarsi l’hijab, il velo. La situazione impaurisce il governo islamico, che teme che la manifestazione di gioia possa turbare l’ordine pubblico: non sarebbe la prima volta nella storia che la folla, spinta in strada dalla passione sportiva, abbia poi preso la via delle barricate. Gli ayatollah mandano i basiji, la milizia paramilitare volontaria che fa capo ai pasdaran, con l’ordine di disperdere le manifestazioni. L’improvvisa ebbrezza dei tifosi di calcio, però, è contagiosa, e i miliziani vengono convinti a unirsi alle danze.

Per placare il clamore il governo islamico fa ritardare il ritorno dei giocatori della nazionale, dirottandoli su Dubai. La radio lancia, invano, appelli perché le manifestazioni cessino e perché le donne restino in casa durante le celebrazioni ufficiali. Tre giorni dopo, mentre i beniamini nazionali fanno il loro ingresso trionfale in elicottero sullo stadio Azadi (“libertà” in lingua farsi), cinquemila donne si accalcano ai cancelli dello stadio. “Siamo anche noi parte di questa nazione, e abbiamo il diritto di festeggiare! Non siamo formiche!”, gridano. La polizia, sperando di contenere la rabbia delle manifestanti, ne fa passare tremila, scortandole all’interno dello stadio in un’area segregata dal pubblico maschile. Le duemila donne rimaste fuori, deluse, caricano i blocchi di polizia e, di forza, si fanno strada verso le gradinate.

La chiameranno Rivoluzione del Calcio: dal 1979 alle donne era vietato mischiarsi agli uomini per assistere alle partite di calcio allo stadio. Uno di quei momenti che riescono a definire la storia: per la prima volta, gli iraniani si rendono conto di avere il potere di sfidare il regime. Una presa di coscienza tanto più importante in quanto partita dalle donne, coloro che più avevano perso con il ritorno dell’ayatollah, e che improvvisamente rifiutano di continuare a vivere in ginocchio.

Il calcio è sempre stato inviso al regime degli ayatollah: introdotto dagli inglesi nei primi anni del secolo, deve la sua popolarità a Reza Khan, shah dal 1925 al 1941, che negli anni ’20 contagiò con la sua passione tutto l’Iran. Divenne una vera e propria guerra dei mondi: mentre nei villaggi chi osava infrangere la Shari’a indossando un paio di pantaloncini per giocare a pallone rischiava la lapidazione da parte dei mullah, Reza confiscò terreni alle moschee, trasformandoli in campi da calcio. Lo shah avviò una campagna di modernizzazione del paese, bandendo l’hijab e le pratiche tradizionali, migliorando le misure igieniche, introducendo per legge un vestiario occidentale e promuovendo la costruzione di strade e ferrovie.

Il calcio, utilizzato da Reza come strumento di consenso, divenne ben presto un simbolo di moderniz- zazione e occidentalizzazione. Quando nel 1979 gli ayatollah iniziarono a sradicare dalla società qualsiasi germe occidentale vi si fosse insediato, dovettero arrendersi di fronte al calcio: dopo aver cancellato la musica pop e bandito ogni film in cui venisse mostrata troppa pelle, non riuscirono ad arginare la passione che aveva infiammato migliaia di iraniani. Nel 1987 Ruhollah Khomeini dovette capitolare di fronte all’attaccamento dimostrato dalle donne nei confronti del calcio, e diramò una fatwa che permetteva alle iraniane di assistere alle partite della nazionale in televisione.

Mondiali 1998: Iran e Stati Uniti in posa assieme, per una volta

Per la prima volta dalla Rivoluzione Islamica veniva permessa la trasmissione di partite di calcio in TV. Preoccupato dalla possibilità che dal tifo passassero messaggi dannosi al regime, lo stato prese le sue precauzioni. La censura della televisione iraniana si riservava il diritto di differire di alcuni minuti la trasmissione, per tagliare eventuali slogan politici da parte del pubblico e per attenuare elettronicamente i cori dei tifosi. Quando la nazionale atterrò in Francia per disputare il Mondiale del 1998, la più grande paura degli ayatollah era rappresentata dalle proteste degli oppositori esiliati: gli appartenenti al gruppo socialista dei Mujaheddin del Popolo organizzarono striscioni e cori a ciascuna delle partite dell’Iran.

La censura della televisione iraniana rispose in maniera goffa, sostituendo alle riprese del pubblico immagini di repertorio che mostravano una folla intabarrata in abiti invernali, poco adatta per rappresentare gli spettatori di partite disputate nel caldo luglio francese. Non servì a nulla neanche cercare di incanalare la foga delle folle, istruendole con cartelloni pubblicitari che recitavano “Abbasso gli USA” e “Israele deve essere distrutto”, o con agenti infiltrati che intonavano cori inneggianti ad Allah. Di fronte a queste contromisure ridicole, i tifosi di calcio iraniani invitarono il regime, a suon di risate, a tenere la moschea fuori dallo stadio.

Il pallone è un grande catalizzatore di passioni, e in Iran ha avuto più volte la capacità di spaventare, con il suo potenziale di eversività, il regime integralista islamico. Ogni partita trasmessa è una ventata di occidentalità per un paese che, fino alla fine degli anni ’70, godeva di una relativa modernità. Ogni impresa della nazionale può diventare il focolaio di una manifestazione. Se un iraniano, da solo, ha paura di esporsi, una folla ha una forza sovversiva incredibile.

17 giugno 2009, Corea del Sud-Iran: sei giocatori iraniani scendono in campo con le fascette verdi al polso

Non è quindi un caso che abbia fatto così scalpore il gesto compiuto il 17 giugno da alcuni membri della nazionale iraniana. Impegnati in uno scontro di qualificazione al Mondiale in Corea del Sud, sei giocatori sono scesi in campo con delle fascette verdi al polso. Verde, il colore della campagna elettorale del candidato riformista Mir Houssein Moussavi, il principale sfidante alla massima carica iraniana di Mahmoud Ahmadinejad, presidente uscente.

Un segno di protesta contro i sospetti brogli elettorali che hanno riconfermato il mandato dell’ex-sindaco di Teheran, il tutto in diretta televisiva in un Iran già scosso quotidianamente dalle manifestazioni dei sostenitori di Moussavi. Un Iran che tornava a prendere coscienza della furia del malcontento e della forza del proprio popolo, sceso nuovamente in strada per sfidare frontalmente il regime islamico. E mentre i giocatori, prima dell’inizio del secondo tempo, venivano costretti a nascondere o togliere le fascette verdi (solo Mehdi Mahdavikia la terrà ancora al ritorno in campo), gli spettatori iraniani sostenevano le manifestazioni, con cori e striscioni. “Compatrioti”, urlavano, “saremo con voi fino alla fine”.

di Damiano Benzoni