Inter-Real Madrid 3-1: Tagnin e la rivincita del gregario

Herrera indovina tutto: Tagnin francobolla inesorabilmente Di Stefano, alla sua ultima apparizione in maglia bianca

«Lui faceva su e giù per il campo, dalla nostra aerea di rigore alla sua, per ricevere il pallone dal portiere e portarlo avanti; io lo seguivo come un’ombra. Me lo aveva detto il “mago”: vagli dietro anche se va al gabinetto. Avevo fatto così con tanti bravi avversari: quand’ero all’Alessandria, Pedroni, che aveva giocato nel Milan, una volta mi schierò centrattacco per marcare Liedholm che faceva il libero. Ma l’uomo che dovevo marcare quella volta a Vienna per non farlo muovere, non farlo giocare come sapeva, era un asso eccezionale: Alfredo Di Stefano. Quando, dopo dieci minuti, si accorse che ero sempre addosso a lui, mi disse mezzo in italiano: “Vieni pure qui nella mia area a marcarmi”? Gli risposi: “Sì, se fermo te, fermo tutto il Real».

TAGNIN “HOMBRE DEL PARTIDO”

Chi parla è un giocatore quasi dimenticato di quell’Inter che il 27 maggio 1964 a Vienna conquistò la prima Coppa dei Campioni dopo una memorabile finale con il grande Real Madrid dei Santamaria, Di Stefano, Gento, Puskas… Si tratta di Tagnin, ex mediano di ferro.
«Di Stefano giocava come aveva giocato prima Hidegkuti nell’Ungheria, come giocò dopo Cruijff nell’Olanda: a tutto campo. Loro applicavano una marcatura quasi a zona, con un mezzo libero: e quello fu forse il primo successo internazionale del modulo all’italiana contro la zona, intendiamoci: azzeccammo la tattica, però eravamo anche più giovani, scattanti, veloci. Loro erano tutti grandi giocatori, ma erano alla fine della carriera, alla frutta, come si suol dire».

E infatti, proprio dopo quella sconfitta, la «Saeta Rubia» (la folgore bionda), cioè Alfredo Di Stefano lasciò il Real. La notizia fece grande scalpore in Spagna e a Madrid, dove Di Stefano era considerato un Dio. Al Real vissero momenti sconvolgenti: il giocatore che per cinque anni era stato considerato il migliore del mondo da tutti i giornali specializzati mandato in pensione così, su due piedi! Raccontano che, appena appresa la ferale notizia dal segretario del club, Alfredo Di Stefano si chiuse per molti giorni nella sua villa Hollywoodiana del Viso, il più bel quartiere di Madrid, e qualcuno scrisse che la «Saeta Rubia» si agitava come un fantasma fra i trofei, le foto, le coppe, le medaglie e la grande scultura di Segui (trecento pezzi di ferro saldati per comporre la sua figura) che adornavano la sua regal dimora. Un umile mediano biondo, Tagnin, aveva cancellato in una sola sera il grandissimo Di Stefano.

A GUARNERI TOCCA PUSKAS

«Sì, loro erano alla fine della carriera – racconta Aristide Guarneri, stopper di quell’Inter memorabile – ma ancora erano formidabili. Tagnin marcò alla perfezione Di Stefano, Facchetti se la vide con Amancio, un’ ala imprendibile, Burgnich andò su Gento. A me toccò Puskas. “il colonnello”. Di Fatto, il Real giocava con due punte “larghe” cioè Amancio e Gento, mentre al centro si inserivano Puskas e Di Stefano. Quest’ultimo partiva da lontano, mentre Puskas faceva un po’ il centravanti, se vogliamo. Non era più veloce come ai tempi dell’Honved e della Nazionale ungherese, ma in spazi ristretti era capace di fare grandi cose: aveva un ottimo controllo di palla, una rapidità di esecuzione, una precisione e una potenza di tiro eccezionali».
Il Real Madrid, Guarneri lo affrontò in diverse occasioni, ma l’esperienza di Vienna, forse perché la prima, resta indelebile nella sua memoria. In effetti, quella finale di Coppa dei Campioni segnò un po’ il tramonto del grande Real e la nascita della stella nerazzurra nel firmamento internazionale.

LA FORZA DEL MAGO

«A me toccò Amancio – raccontava il grande Giacinto Facchetti – e non era una cosa facile marcarlo. Il Real aveva un gruppo di giocatori tutti bravissimi, anche se taluni erano anziani: quindi occorrevano giocatori dalle caratteristiche adeguate per marcarli. Non dimentichiamo che Di Stefano è stato forse il primo e il migliore uomo-squadra degli ultimi trent’anni. Impostava e concludeva, difendeva ed attaccava. E Puskas aveva un sinistro incredibilmente preciso e potente. Amancio era molto rapido nel dribbling, un uomo da area di rigore, mentre Gento partiva da più lontano, aveva una notevole progressione, era un piccolo ma dalla falcata ampia. Amancio era più da area di rigore: in seguito si trasformò in centravanti e io, in altri incontri col Real, marcai Grosso. Comunque fu molto abile, il “mago”, soprattutto perché ci convinse della nostra forza. E cosi vincemmo».

GIOCHI A QUIZ

«L’abilità del “mago” – dice Tagnin – stava nel conoscere tutti i tipi di avversario. Lui aveva un libriccino e vi segnava le caratteristiche dei giocatori che vedeva. Forse per primo inventò la moda della “spiata”, cioè mandare a vedere gli avversari, per conoscerli e non restare sorpreso sul campo. Lui ci sapeva descrivere tutto di tutti: noi, ogni tanto, cercavamo di coglierlo in castagna e magari qualcuno dei miei compagni tirava fuori il nome sconosciuto del centravanti di una squadra greca o bulgara. Herrera si concentrava, andava a scartabellare, e poi ci diceva per filo e per segno chi diavolo mai fosse quel Carneade. Formidabile. Questo ci dava fiducia. Pure in occasione della partita con il Real, H.H. seppe darci tante notizie dei nostri avversari, che sembrava li avessimo incontrati dieci volte. In quell’anno avevamo fatto fuori Everton, Monaco, Partizan di Belgrado e Borussia Dortmund, avevamo battuto tutti, mai una sconfitta: perché avremmo dovuto perdere giusto la finale? e infatti inventammo la nottata più bella della nostra vita».

ONORE AL COLONNELLO

«Certo – dice Sandro Mazzola – i giocatori del reparto difensivo di quel Real non erano famosi e importanti come quelli dell’attacco. Però erano tutti elementi di una certa levatura con un Santamaria che era stato campione del mondo nelle file dell’Uruguay di Ghiggia e Schiaffino. Il Real giocava a zona a centrocampo, mentre dietro stava disposto a uomo. Santamaria faceva il libero, ma quasi in linea con gli altri difensori, massimo cinque metri dietro. La partita si mise bene per noi quando io feci quella sparata che sorprese Vicente, lo miravo spesso alla porta da lontano e sovente incrociavo il tiro. Poi loro si buttarono in avanti e fecero così il nostro gioco. Il secondo gol lo segnai approfittando di una rovesciata sbagliata di Santamaria: fui lesto, controllai di petto e sorpresi tutti. Santamaria non s’aspettava che potessi essere lì. Il Real degli anni successivi non era certo della levatura dell’altro: possedeva buoni giocatori come Velasquez, molto forte tecnicamente, e Pirri che poi giocò a lungo in Nazionale, aveva qualche notevole individualità. Resisteva il vecchio Gento, ma non era la squadra dei Puskas e dei Di Stefano. Il “colonnello” venne nel nostro spogliatoio, dopo la partita di Vienna, perché voleva la mia maglia: mi disse di aver conosciuto mio padre. Aveva una grossa intelligenza calcistica e un sinistro fatato: era un grosso inventore. Ma era Di Stefano il vero leader del Real: aveva il portamento, lo sguardo, il carisma del leader. Prima della partita, durante il riscaldamento, rimasi cinque minuti a guardarlo chiedendomi se davvero stessi per andare in campo contro di lui. Mi hanno spesso chiesto chi sia stato per me il giocatore più bravo di tutti i tempi. E’ difficile stabilirlo. Però io dico questo: Pelé è stato grandioso, ma ha sempre giocato in Sudamerica. Di Stefano ha giocato prima in Argentina e poi in Europa per più di dieci stagioni, ai massimi livelli, sino a 38 anni. Faceva il centrocampista, ma con scatti da punta, per novanta minuti. Somigliava a Hidegkuti, ma con un altro passo. Era il più bravo di tutti».