MÜLLER Gerd: il Bomber per definizione

Tecnica buona, non trascendentale, fisico poco slanciato, anzi decisamente tozzo, tendente al grasso. Quando finalmente se lo vide davanti, Zlatko Chajkovski, vecchio internazionale jugoslavo, fece una smorfia. Tutto lì, il fenomeno? Per averlo, Wilhelm Neudecker, il presidente del Bayern Monaco, aveva fatto fuoco e fiamme.

Su quel ragazzino si era accesa un vera e propria asta, protagonisti i principali club tedeschi. In quegli anni Sessanta il Bayern navigava in acque procellose, confinato nelle posizioni di rincalzo della Lega regionale, ma Neudecker aveva grandi progetti, e per questo prima si era affidato al tecnico slavo, poi si era buttato a capofitto nella caccia a quel giovane goleador, che nella natia Nordlingen aveva sbriciolato tutti i primati conosciuti a livello di tornei minori, già, perché Gerhard Müller detto Gerd aveva il gol nel sangue. Magari per lunghi tratti della partita lo perdevi di vista, ma al momento di buttarla dentro arrivava sempre primo, su compagni e avversari.

Gerd era uno dei tanti ragazzi tedeschi nati nel periodo della ricostruzione, con addosso la voglia di riscattare, con il successo nella vita, i cumuli di rovine e di macerie in cui si erano specchiati negli anni dell’infanzia. E il successo Gerd lo inseguiva a suon di gol, tanti, raramente belli o memorabili, ma puntuali e rabbiosi, come una sfida al destino. «Troppo grasso per trovar spazio nell’area di rigore», lo liquidò il vecchio Zlatko. Poi, però, alla tredicesima giornata si ritrovò senza punte e così, più per necessità che per convinzione, lo fece debuttare a Friburgo. Gerd segnò due gol, tanto per gradire, e “Tschik“, come lo chiamavano in Germania, rivide subito il giudizio. In area quello era una furia, altro che storie.

L’anno successivo, 1964-65, i 35 gol di Müller trascinarono il Bayern nella massima divisione, un Bayern che andava completando pezzo dopo pezzo un vero squadrone. Gerd ripristinava la figura del centravanti classico, in un periodo di grandi evoluzioni, che preannunciavano l’avvento di un calciatore polivalente, fuori dagli stereotipi di un tempo. In questo senso, Müller era quasi un retaggio del passato. Ma al momento del dunque, gettava sul piatto un numero così impressionante di gol da mettere in secondo piano tutte le altre considerazioni.

Del gol era un cacciatore rapace e instancabile, un maestro negli agguati ai difensori, che lo vedevano nascondersi nelle pieghe della partita, per poi materializzarsi improvvisamente, e irrimediabilmente, nel momento della verità. Mancando di numeri d’alta scuola, di prodezze indimenticabili, Gerd faticava a entrare nella fantasia popolare. Più che un artista, come il suo compagno e capitano Beckenbauer, era un paziente assemblatore di gol, che confezionava senza pause, in quantità industriale.

Dovendo rimettere in pista la Nazionale, dopo la parziale delusione del Mondiale 1966, quello scippato in finale dagli inglesi con il gol fantasma, il Bundestrainer Helmut Schoen chiamò anche quell’ultimo grido dei cannonieri e lo fece debuttare il 12 ottobre 1966 in Turchia, ad Ankara. La Germania vinse due a zero, ma la vera notizia fu che Müller non segnò. Si rifece poco dopo, firmando contro l’Albania una quaterna secca, ed eguagliando così un primato tedesco che durava da venticinque anni. Da lì partì una lunga età dell’oro, con il Bayern, dominatore dentro e fuori i confini, e con la Nazionale tedesca, autrice di una formidabile serie agli inizi degli Anni Settanta.

Eliminati dall’Italia nella memorabile semifinale dell’Atzeca, a Messico 70 dove tuttavia Müller fu il cannoniere principe con dieci gol personali, e comunque terzi alla fine, i tedeschi vinsero poi l’Europeo del 72 in Belgio e i Mondiali del 74 in casa propria. Il duello appassionante con l’emergente calcio olandese contrapponeva il rivoluzionario modulo totale di Cruijff e compagni, al più tradizionale e pragmatico gioco tedesco, articolato su una difesa ferrea, una condizione atletica strepitosa e una produttività in attacco che aveva proprio in Gerd Müller il suo mortifero terminale. Così, nel 1973, prese corpo il grande sogno del Barcellona, il club più ricco di soldi e di idee. Procedere a una sorta di contaminazione, mettendo insieme Cruijff e Müller, per dar vita alla più sensazionale coppia d’attacco di tutti i tempi. Nessuna difficoltà per conquistare l’olandese, mentre per Müller la Federazione tedesca s’impuntò.

C’erano da organizzare e da vincere i Mondiali di casa, il cannoniere non poteva lasciare la Germania. Müller s’infuriò, anche perché vedeva svanire una montagna di soldi che non sarebbero tornati più. Pronunciò una profetica minaccia, che era anche una promessa: «Vi regalerò il titolo mondiale, e poi non metterò mai più piede in Nazionale». Fu di parola. Il 7 luglio, all’Olympiastadion di Monaco, il suo stadio, Gerd Müller firmò, con una piroetta in area, il beffardo gol di rapina che al 43′ del primo tempo, consegnò alla Germania la vittoria per 2-1 sull’Olanda e insieme lo scettro iridato.

Aveva ventinove anni, era nel pieno della carriera, aveva segnato, con quello, 68 gol in 62 partite della Nazionale. Ma il suo addio fu irrevocabile, una ritorsione attuata lucidamente. Vinse e segnò ancora tanto con il Bayern, ma il treno del Barcellona non passò più.
Così seguì l’esempio di Beckenbauer e andò a monetizzare gli ultimi spiccioli di carriera negli Stati Uniti, accasandosi negli Strikers di Fort Lauderdale, sulla Costa Occidentale.

Dopo il ritiro, Müller dovette affrontare un lungo periodo di depressione, che lo condusse anche all’alcolismo. Gli vennero in soccorso i suoi ex compagni del Bayern Monaco nel frattempo divenuti dirigenti del club, che lo incoraggiarono ad affrontare una terapia di disintossicazione e riabilitazione e, successivamente, nel 1992 lo ingaggiarono nello staff tecnico come allenatore delle squadre giovanili.

Testo di Adalberto Bortolotti