BARESI Franco: calcio, tackle e fantasia

Franco Baresi è stato il calcio allo stato puro, illustrato nel gesto tecnico, nella carica agonistica, nella classe e nella corsa, nel lancio e nel tackle.

Una sorta di manuale che si apriva invariabilmente a ogni fischio dell’arbitro, il cuore sempre pronto a lanciarsi oltre l’ostacolo, il pallone accarezzato ma anche l’avversario spazzato via, secondo quell’armonia di arte e cattiveria che rappresenta il cuore autentico del football.

Nato a Travagliato in provincia di Brescia l’8 maggio del 1960, inizia a giocare nell’USO, unione sportiva oratorio, del suo paese sia come terzino che come stopper. Ha un fratello, Beppe, di due anni più vecchio, che gioca nelle giovanili dell’Inter e vive nel pensionato nerazzurro di viale Famagosta a Milano. E’ proprio l’Inter che nel maggio del 1974 lo boccia in un provino. “Devi crescere, magari torni il prossimo anno“. Uno dei capi del settore giovanile interista è Italo Galbiati che assiste con aria severa al provino. Possibile che proprio l’Italo, naso fino, uomo di calcio, si sia sbagliato? Che non abbia capito cosa gli stava passando davanti? Difficile.

La stagione successiva Italo Galbiati passa al Milan e lo manda a chiamare. Nuovo provino, stavolta a Milanello. Una partitella da terzino: non basta. E’ visionato anche come libero. Bene, lo prendono. E’ alto 1,64 e qualcuno storce il naso. Crescerà? Mah, possibile. Ma non oltre il metro e settanta. Il Milan lo compra per un milione e mezzo di lire e una clausola: “Vi diamo un milione per ogni centimetro in più se va oltre il metro e settanta“. Franco arriva a 1,76. La promessa è stata onorata? Franco sorride: “Non lo so…“.

Entra nel settore giovanile dei rossoneri nell’agosto 1974. Lo trasferiscono subito da Linate, campo dell’Aeronautica a Milanello. Stanza numero 4, due letti a castello. Divide i silenzi con Gabriello Carotti, un morettino dai piedi buoni, ma ancora più taciturno di Franco. Diventano molto amici. Franco fa la trafila: Allievi A, Allievi B. Un giorno, Pippo Marchioro, allenatore rivoluzionario, chiede un ragazzo, un difensore, per un’amichevole con il Verbania. Gli mandano Franco che durante la partita si butta in avanti. Pippo fa il burbero e nello spogliatio lo sgrida: “Scusa, giovanotto: ma io avevo chiesto un difensore…“. Poi lo accarezza e gli fa i complimenti: “Bravo, bravo continua così…“. E’ il primo riconoscimento ufficiale.

Negli Allievi incontra ancora Italo Galbiati che accompagnerà la carriera di Baresi per oltre vent’anni. Nella stagione 1977-78 è nella Primavera di Francesco Zagatti. Lo stipendio? Ventimila lire al mese. Più vitto e alloggio. Più il “mantenimento” agli studi. Franco Baresi è iscritto all’istituto per geometri a Milano. Non è un secchione, ma va avanti. Fa il Viareggio e gli altri tornei giovanili. E’ a Lanciano, in Abruzzo, quando arriva la notizia più brutta: il papà è morto, travolto da un’automobile davanti all’oratorio. Milanello diventa la sua nuova casa, Paolo Mariconti, il massaggiatore della Primavera, un uomo stupendo, il suo secondo papà.

Quando lo inseriscono nel giro della prima squadra Franco, schiacciato dagli allenamenti del mattino, lascia la scuola. “Ma non ne ho fatto un dramma“, dirà più avanti. Estate 1977. Vipiteno. Primo ritiro di Franco Baresi. L’albergo si chiama Aquila Nera, l’allenatore è Nils Liedholm. Nella prima squadra passa anche Mariconti e il piccolo Baresi diventa il Piscinin, il più piccolo di tutti. Lega con Collovati, il più giovane dei titolari. Fabio Capello, vecchio centrocampista, non gli dà molta confidenza. Decisiva la presenza di Liedholm, l’allenatore che difende e lancia i giovani.

Debutta in serie A il 23 aprile 1978. Ramon Turone è squalificato e Liedholm lo prende in disparte: “Giochi tu”. Baresi ricorda quella domenica di emozioni: “Albertosi non si fidava. Mi diceva sempre che fai, stai attento. Ero confuso, avrei voluto rispondergli anche male. Ma come potevo?“.Il Milan vince e negli spogliatoi alla fine incontra il faccione di Nereo Rocco, che lo squadra e bofonchia: “Ciò, mona, te ga zogà anca ti?“. Baresi s’incendia e i suoi compagni si mettono a ridere. Scappa, si nasconde sotto la doccia. Il giorno dopo sfoglia i giornali e trova i complimenti. Rivera: “Questo ragazzo farà molta strada“. E detto da Rivera…

Il ragazzo Baresi è sempre il Piscinin, ma visto con occhi diversi. E’ un investimento, il d.s. Sandro Vitali non ha dubbi: “E’ il libero del futuro“. Liedholm però pensa ad Albertino Bigon. Lo fa arretrare, Bigon nelle amichevoli estive fa il primo tempo, Franco il secondo. Franco è sempre il migliore e Liedholm, che già stravede, adora questo ragazzo, lo promuove: “Tu adesso iochi sempre“.

Gioca e il suo primo Milan da titolare (l’ultimo di Rivera) vince lo scudetto numero dieci. L’attacco con Novellino, Antonelli e Chiodi non è bomba ma il Milan raggiunge la stella. Nel 1979 lo stipendio, da contratto, è 12 milioni l’anno. Rivera propone anche per lui un premio scudetto: 50 milioni. Franco, neo patentato, fa il suo primo acquisto importante: una golf grigia. Racconterà nel suo libro “Un amore chiamato Milan”, curato dal giornalista Alberto Costa: “Il presidente Felice Colombo pagava bene, la comprai per nove milioni. Ero felice perchè avevo appena preso la patente“.

Anni ’80. Liedholm lascia, arriva Massimo Giacomini, giovane e colto, in doppiopetto e cravatta ma dalla complessa personalità. Ombroso, continui cambi di umore, poco feeling con la squadra. Il Milan ne risente. Poi critica, ama le battute a effetto sui giocatori e questi se la prendono. Esce dalla coppa Campioni al primo turno con il Porto. Zero a zero all’andata, papera di Albertosi a San Siro. Anno disastroso.

Poi scoppia lo scandalo delle scommesse. Il Milan è dentro sino al collo. Alcuni giocatori, gli anziani, puntano al totonero sulla sconfitta della propria squadra. Insomma, vendevano (e compravano) le partite. Baresi il piccolo è all’oscuro di tutto. Il Milan arriva terzo e retrocede. La società in B conferma Giacomini, immediato ritorno in A. Baresi nel frattempo è convocato da Vicini nell’Under 21.

E cominciano gli anni bui. Cambia la panchina. Via Giacomini, ecco Gigi Radice detto il tedesco. La preparazione è massacrante, persino Joe Jordan, scozzese con la cultura del lavoro, va in tilt. “A Radice avevano detto che eravamo una squadra di lavativi, che avevamo bisogno di lavorare in profondità. Che non avevamo palle. Un sacco di stupidaggini“. Il Milan distrutto è fisicamente: un anno da cani. Il campionato 1981-82 perde Franco Baresi per quattro mesi per una malattia del sangue. Sono giorni terribili, Franco teme di lasciare il calcio. Il Milan acquista dal Brescia un libero, Venturi, e lo paga più di un miliardo.

Radice intanto è esonerato; il presidente Colombo squalificato per lo scandalo – scommesse cede la società a Giussy Farina, simpatico avventuriero del nostro calcio. Italo Galbiati sostituisce Radice ma il Milan sprofonda e i tifosi contestano, Collovati è colpito da un sasso. Il Milan retrocede per la seconda volta in B stavolta per demeriti sportivi. Il Milan in B ma Baresi non lascia. Si fanno avanti in tanti, Mantovani della Samp offre cifre a nove zeri, ma Franco dice: “Il Milan è la mia vita“. Franco scende nuovamente in B, Collovati non lo segue e passa all’Inter. Franco firma un biennale di circa 100 milioni all’anno. Una promozione. Anche sul campo: diventa capitano a soli 22 anni. “Un fatto strano, quella retrocessione fu per me il totale rilancio

Milan fresco, quello del 1982. Ilario Castagner allenatore, che punta su un sacco di giovani: Evani, Battistini, Icardi, Incocciati. Franco è in B, ma Bearzot prima lo inserisce nell’elenco dei 40 azzurri per la Spagna e poi fra i 22. Torna campione del mondo che ricomincia ancora dalla B. In dicembre, sabato 4 dicembre, fa il suo esordio in nazionale. A Firenze contro la Romania (0-0) al posto di Gaetano Scirea infortunato a una caviglia. Gioca un tempo da libero e uno da mediano. La sera corre a Milanello dove il Milan è in ritiro e il giorno dopo torna in campo a Como.

La nuova promozione arriva in un clima di sbandamento. Milanello, nella gestione Farina diventa una specie di gigantesca osteria. Installano persino i juke box, distributori automatici di bibite, nel ristorante si fanno pranzi di nozze, rinfreschi. Un casino. E i giocatori devono viverci, allenarsi, preparare le partite. Ma non tutto è fosco, nero, triste, disarmante: durante una trasferta di serie B, Franco conosce la splendida Maura. Diventerà sua moglie.

Con Ilario Castagner in A il Milan fa prove di zona, ma non c’è la mentalità. E nemmeno gli uomini. Giussi Farina acquista il difensore belga Eric Gerets, costretto però a lasciare dopo tre mesi per uno scandalo delle scommesse con lo Standard Liegi. E poi fa arrivare lo sconosciuto Luther Blissett, un inglese nero, centravanti del Watford, la squadra del cantante pop Elton John. Altra misera stagione che comincia con una pesantissima sconfitta (4-0) ad Avellino. Franco, giocatore deciso, si fa espellere. Inizio, e fine, da dimenticare.

Nuovo cambio sulla panchina, ritorna Nils Liedholm. Nuovi stranieri, due inglesi, Hateley e Wilkins. Uno lo chiamano Attila, l’altro Rasoio. Mark Hateley ha la puzza al naso, detesta gli italiani, non va d’accordo con il dottor Monti, ma resta nella storia rossonera per un gol di testa all’Inter. Quella domenica va in cielo, sovrasta il traditore Collovati e fa impazzire San Siro. Enzo Bearzot intanto convoca Franco per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984. E lo fa giocare da mediano. Baresi si arrabbia, se la prende (“Tutte le volte che la squadra non girava davano la colpa a me“). Un pomeriggio, dopo alcuni battibecchi con la panchina, non ce la fa più, esplode e manda a quel paese Bearzot che ne prende atto e lo fa uscire dal giro azzurro.

Il Milan del Liedholm 2 si addestra alla zona: c’è Tassotti a destra e Filippo Galli a sinistra. Evani, spiega Nils con la sua ironia, avanti alla Bruno Conti. Qui comincia la lenta metamorfosi del Milan che studia da grande. La zona del Barone non fa pressing, non fa la diagonale ma nei recuperi la difesa si dimostra straordinaria. Nils porta tranquillità, cambia l’atmosfera, con lui gli allenamenti sono un gioco, on assilla, non martella, lascia libertà e non imbavaglia la fantasia. Con lui il Milan arriva al quinto posto, sfiora la coppa Italia e conquista la zona Uefa. E l’Uefa l’anno successivo regala a San Siro una delle più belle partite della gestione Farina. Andata Milan sconfitto 3-1 ad Auxerre. Ritorno 3-0 in casa con gol di Hateley e doppietta di Virdis. Cade però al terzo turno contro il Waregem (Belgio).

Nel dicembre 1985 esplode la crisi societaria. Segnali di fallimento, il libri della società in tribunale. Farina affonda in un mare di debiti, potrebbe salvarsi vendendo Hateley ma non lo fa. Potrebbe cedere Baresi alla Samp: Mantovani offre 16 miliardi ma Farina dice ancora di no. Il presidente dell’Inter, Ernesto Pellegrini, attraverso il fratello Beppe, manda a dire a Franco: “Se vuoi, noi siamo pronti“. Baresi dice no. Sono no importanti, decisivi, come l’arrivo di Silvio Berlusconi.

Il primo marzo 1986 Berlusconi è a Milanello. Il Milan ormai impelagato a metà classifica vede sfumare il traguardo Uefa e punta alla ricostruzione. La campagna acquisti, Giovanni Galli, Massaro, Dario Bonetti, Donadoni, Galderisi, è massiccia. Liedholm dice: “Sono tutti nascionali“. Il Milan di Berlusconi si trasforma, diventa un’azienda, pianifica tutto, spettacolarizza persino i raduni. Quello degli elicotteri, con i giocatori che sbarcano all’Arena al suono della “Cavalcata delle Walkirie”, fa discutere, un raduno hollywoodiano, esagerato, spocchioso. In campo, quello vero, la scenografia è diversa, e Liedholm alla fine salta. Berlusconi nelle ultime partite affida la squadra a uno dei suoi aiutanti, Fabio Capello (l’altro è Luciano Tessari) che acciuffa la zona Uefa nello spareggio di Torino contro la Samp.

E siamo alla grande cavalcata, quella vera. Nasce il Milan di Arrigo Sacchi e Baresi, capitano di tutti i Milan, diventa uno della troika. Il successo, dirà Sacchi, si basa sull’asse Baresi – Ancelotti – Gullit. Arrigo è presentato da Berlusconi come “il tecnico con la paranoia della vittoria“. Insegna al Milan un calcio mai visto. Ricorda Franco: “Ti imponeva il divertimento di fare pressing, il divertimento di rubare la palla all’avversario. Tutte cose che dovevano esaltarci, non avvilirci“. Con Sacchi arriva lo scudetto del sorpasso al Napoli. Con Sacchi, Baresi alza due coppe dei Campioni, due coppe Intercontinentali, due Supercoppe Europee.

Sull’aereo che torna da Barcellona dopo il trionfo contro la Steaua, viaggiano Cesare Maldini, Gianni Rivera e Franco Baresi, i grandi capitani. Sono stati messi insieme per immortalare la stagione dei grandi trionfi. I tifosi cantano “Francobaresi, c’è solo Francobaresi” ma il più grande libero del mondo (parola di Platini, Maradona, Van Basten) non è ritenuto idoneo per il Pallone d’oro. Lo vincerà il francese Papin, lo vincerà 3 volte il compagno di squadra Van Basten, lo vincerà il tedesco Sammer. Baresi no, non segna. Lui dirà: “Sì, ci ho pensato ma noi difensori siamo penalizzati. E poi io ho una squadra d’oro: il Milan“.

Arrigo Sacchi lascia dopo quattro anni per la nazionale. Trionfi, successi, polemiche e il buio di Marsiglia. La stagione 1990-91 finisce nell’astio: ormai il rapporto con Arrigo era diventato insopportabile, i suoi sistemi di allenamento toppo pesanti. Lui, spinto anche da Berlusconi, decide di cambiare, tirarsi in disparte. Per molti, anche per lui, quella squadra era arrivata alla fine di un ciclo. Non c’era più nulla da spremere. Milan al capolinea? Solo un’opinione, una diffusa opinione. Silvio Berlusconi consegna lo spremuto gruppo a Fabio Capello. Finiti? E invece il Milan vince e vince. Capello diventa il gestore dei vecchi e logori campioni. Toglie il pressing asfissiante, lo trasforma da incubo ad arma da dosare con intelligenza e saggezza: “Non siete vecchi e finiti

Baresi gonfia il petto, per uno come lui quelle parole sono musica. E quel Milan diventa il Milan dei tre scudetti consecutivi. E poi dei quattro scudetti in cinque anni. Quando il Milan, dopo dieci vittorie consecutive, in coppa dei Campioni perde la finale di Monaco contro il Marsiglia la critica affonda il bisturi: “Fine degli Invincibili”. E invece ci saranno altre rimonte, altre reazioni, altri stimoli e impulsi. Lo slogan dei Milan dei cicli di Berlusconi è: “Questa squadra non tradisce mai“. E Franco Baresi lo fa suo. Dopo una sconfitta, dopo un’amarezza gonfia il petto: “Noi non molliamo, non ci arrendiamo“. Cioè io non mollo, io non mi arrendo. Lo dice, capitano degli azzurri, dopo i mondiali del ’90 e del ’94, dopo le lacrime di Los Angeles con il Brasile.

E’ il 17 luglio 1994. Kaiser Franz torna in campo per la finale iridata a Pasadena contro il Brasile, realizzando un piccolo miracolo: infortunatosi a un ginocchio il 23 giugno durante Italia-Norvegia al Giants Stadium di New York, era stato operato di menisco a Manhattan e aveva fatto in tempo a guarire e recuperare il tono atletico, come dimostrerà disputando una partita eccezionale. Poi, alla fine, la sequenza dei calci di rigore. Baresi si reca per primo sul dischetto e ne viene fuori un tiro alto, frutto evidente dell’emozione. Dopo di lui, sbagliano Massaro e Baggio e il titolo finisce al Brasile. Così a tutti è rimasto in mente il duro Baresi in lacrime al centro del campo, nel sole della California, come se la sconfitta avesse infranto un sogno irripetibile, per un giocatore che al mondo aveva ormai vinto tutto. Duro, ma con sentimento. Si conclude così il rapporto tra Baresi e la Nazionale dopo 81 presenze e una rete.

Gioca le sue ultime tre stagioni e fa in tempo a conquistare nel 1995/96 l’ennesimo scudetto con Capello. Campione fino all’ultimo, dice addio il 23 giugno 1997, prima che la sua bandiera di fuoriclasse venisse intaccata dall’inesorabile trascorrere del tempo. Grande fino in fondo, è riuscito dove spesso altri grandi hanno fallito: giudicare obiettivamente la propria condizione fisica, fermandosi un attimo prima che il precipizio del declino si aprisse davanti al suo mito. Ora la sua maglia, la numero 6, è stata ritirata dal Milan, sul modello dell’Nba, così consegnando definitivamente alla storia l’uomo simbolo del Milan dei tempi moderni.