Dynamo Kiev: il laboratorio di Lobanovski

Verso la metà degli anni settanta arriva la Dinamo Kiev a soffiare aria nuova nell’asfittico panorama del calcio sovietico. L’undici di Valeri Lobanovski, soprannominato il profeta del calcio del 2000, viene addirittua trapiantato integralmente nella nazionale sovietica.


Dopo un lungo periodo di decadenza, il calcio sovietico quasi di colpo verso la metà degli anni settanta acquista una dimensione internazionale, imponendosi agli esperti dell’epoca come una delle più nuove e per certi versi sorprendenti realtà del mondo pedatorio. Un’improvvisa resurrezione risultato di una sorta d’esperimento di laboratorio, compiuto da un allenatore di Kiev, Valeri Lobanovski. Conviene tornare un po’ indietro nel tempo per comprendere il senso dell’impresa del tecnico sovietico, impresa che ha un solo precedente nella storia del calcio: quello del grande Torino scomparso a Superga.

Per anni, la Nazionale di calcio, riflettendo i pregi e i diletti delle squadre di club, era riuscita a nascondere la mancanza di fantasia e di originalità di schemi, oltre che la lentezza del gioco, con la preparazione atletica, la rigida disciplina tattica e una certa classe individuale di alcuni suoi giocatori (ricordiamo Jashin, Netto, Metreveli, Streltsov, tra i tanti). Ottenne cosi risultati di prestigio in campo internazionale, come la qualificazione per la semifinale della Coppa del Mondo nel 1966, che la vide sconfitta, e non molto chiaramente, dall’Inghilterra padrona di casa e poi vincitrice del titolo.

A partire dalla fine degli Anni Sessanta, però, le doti che abbiamo ricordato – e particolarmente la classe individuale – erano venute progressivamente meno, senza essere sostituite da altre. Soprattutto non vi era stato, né da parte della Nazionale né da parte delle squadre di Club, alcuno sforzo di modernizzazione, cioè di adeguamento ai nuovi indirizzi tecnico-tattici che stavano emergendo nel football internazionale.

Cosi, mentre le squadre di Club scomparivano sistematicamente, ogni anno, sin dai primi turni dalle competizioni internazionali, la squadra nazionale collezionava più sconfitte che vittorie, facendosi dapprima eliminare nel quarti di finale ai mondiali del 1970, in Messico, e non riuscendo neppure a qualificarsi per il girone finale di quelli del 1974. E’ vero che si trattò di un’autoeliminazione, in quanto, per motivi politico-diplomatici, l’Urss si rifiutò di disputare l’incontro di ritorno nel Cile dei colonnelli golpisti. Ma il fatto che la Nazionale sovietica fosse stata costretta a giocarsi il posto nella finale in uno spareggio con il Cile, e avesse pareggiato l’incontro d’andata a Mosca, era già abbastanza significativo dello scadimento di qualità del calcio russo.

I sovietici non andarono quindi ai mondiali del 1974 – campionati forse più rivoluzionari, sul piano tecnico e tattico, nella storia del calcio moderno – ma ne annotarono attentamente la lezione. O, almeno, l’annotò Lobanovski, allora direttore tecnico della Dinamo Kiev, che, probabilmente con il consenso tacito dei dirigenti della Nazionale, decise di applicarla alla lettera alla loro squadra.

Valeri Lobanovski, soprannominato il profeta del calcio del 2000

Lobanovski, ucraino di Kiev, classe 1939 comincia nelle giovanili della Dinamo per essere subito incorporato nell’esercito (raggiungerà il grado di colonnello). Attaccante fisicamente forte, molto tecnico ed elegante, provvisto di un gran tiro, gioca a calcio e si dedica allo studio di termotecnica (si laureerà ingegnere meccanico). Il trio offensivo della Dinamo Kiev formato da Basilevich, Kanevski e Lobanovski inserisce il club tra i grandi, conquistando tre titoli nazionali e due Coppe dell’Urss in quattro anni, dal 1964 al 1968.

Estroso e ribelle, Lobanovski entra in conflitto con l’allenatore Maslov e a ventinove anni sbatte la porta, accusando il tecnico – curioso precedente – di opprimere i giocatori dando poco spazio alla fantasia. Chiude la carriera giocando nell’Odessa e nello Shaktjor per diventare allenatore, il più giovane del paese, alla guida del Dnepr, maturando le proprie convinzioni, molto vicine a quelle del vituperato Maslov.

All’amore per una preparazione atletica che promuove il movimento dei giocatori sul campo, aggiunfe lo studio delle reazioni fisiche e degli atteggiamenti mentali. Quando nel 1973 torna alla Dinamo Kiev in veste di allenatore, era pronto a dar corpo alle proprie teorie. Il suo è un calcio scientifico, in cui nulla doveva essere lasciato al caso («In campo le sole improvvisazioni che ammetto sono quelle che possono creare problemi agli avversari»). Al proprio fianco, per dare una sterzata al concetto di allenamento atletico, vuole a tutti i costi Petrowski, il “mago” dell’atletica leggera che fa volare il velocista Borzov.

A Kiev Lobanovski si trova a disporre del miglior materiale umano possibile: giocatori già abbastanza sperimentati , molto affiatati tra di loro, tutti dotati di una discreta classe individuale e quindi di una certa versatilità nei ruoli, con in più due giocatori di livello nettamente superiore alla media, anche europea: Vladimir Veremeev e Viktor Kolotov. Con mesi di durissimo lavoro, prolungatosi per tutto il periodo invernale (in Unione Sovietica il campionato inizia a primavera), dapprima con lunghe sedute teoriche e poi con una serie d’esperimenti pratici nel corso di una prolungata “tournée” in Paesi caldi, Lobanovski trasforma la Dinamo Kiev in una squadra dal gioco organizzatissimo e moderno, all’insegna di quel “calcio totale” che era stato il leit motiv dei mondiali del 1974.

La Dinamo di Kiev 1975

La Dinamo comincia a muoversi come una macchina ben oliata, vince campionato e Coppa dell’Urss nel 1974 e si avvia a trionfare anche in campo europeo. Nell’avventura in Coppa delle Coppe 1974/75 non sembra mai in difficoltà per tutto l’arco della competizione, elimina l’Eintracht Francoforte al secondo turno ottenendo due vittorie e perde una sola gara, la semifinale di ritorno contro il PSV Eindhoven. Il 2-1 per gli olandesi, tuttavia, non impensierisce i sovietici, vittoriosi 3-0 nella partita di andata con reti di Onnischenko, Blokhin e Kolotov.

Anche gli avversari della Dinamo in finale, gli ungheresi del Ferencvaros, destano un’ottima impressione, eliminando squadre del calibro di Liverpool e Stella Rossa, quest’ultima in grado di estromettere il Real Madrid nei quarti. La formazione guidata dal miitico Florian Albert, tuttavia, si presenta alla finale di Basilea priva di numerosi giocatori nei ruoli chiave: lo squalificato Balint e gli infortunati Branikovitz e Pusztai.

In occasione dela finalissima, lo stadio St. Jakob conta appena 10.000 spettatori, dal momento che la situazione nell’europa orientale non permetteva a molti tifosi di essere presenti. La Dynamo si rende protagonista di una brillante dimotrazione di calcio offensivo, annichilendo gli ungheresi grazie alla velocità di Oleg Blokhin e Vladimir Onnischenko e ai precisi lanci dei centrocampisti Muntian e Kolotov. Onnischenko va a bersaglio due volte, al 18′ e al 19′, e Blokhin chiude i conti al 67′. L’Unione Sovietica finalmente conquista un trofeo e il club ucraino di Lobanovski riesce a farsi conoscere in tutto il continente.

A questo punto, i dirigenti della Federazione sovietica di calcio nominano il tecnico di Kiev allenatore della Nazionale, licenziando su due piedi i loro predecessori, mettono la maglia della Nazionale a tutti i giocatori della Dinamo, riserve comprese, e decidono che tutti gli incontri ufficiali dell’Urss si giochino soltanto a Kiev, affinché i giocatori si sentano a casa propria e sostenuti da un pubblico amico. Nel giro di cinque giorni, la Dinamo-Nazionale conquista la Coppa delle coppe (3 a 0 in finale al Ferencvaros) e ottiene una preziosa vittoria nella Coppa Europa per nazioni (2 a 1 contro l’Irlanda, che l’anno precedente aveva battuto l’Urss per 3 a 0), il tutto all’insegna di un calcio davvero eccellente. A settembre arriva anche la Supercoppa Europea; battuto il Bayern 1-0 con rete di Oleg Blochin.

A sinistra,Kolotov esibisce la Coppa delle Coppe. A desta Blochin e Burjak

Lo schema di gioco della Dinamo-Nazionale si riassume in sei parole: attaccare in otto, difendersi in otto. Più in dettaglio, eccone la tattica. La squadra si difende «a zona», con due soli difensori fissi, che cioè non superano quasi mai la meta campo: Michail Fomenko e Stefan Reshko (o Leonid Burjak, che talvolta lo sostituisce). Vladimir Troshkin, Viktor Matvenko (cioè, in fase difensiva, i due terzini d’ala) e Anatoli) Konkov formano la seconda linea difensiva, che però è anche la prima linea di centrocampisti. Vladimir Muntjan, Vladimir Veremeev e Viktor Kolotov costituiscono la seconda linea di centrocampo e, all’occorrenza, il primo sbarramento difensivo di fronte agli attacchi avversari. Vladimir Onishenko e Oleg Blochin sono le punte fisse.

Il perno di tutto il gioco della squadra è Veremeev, 26 anni, un piede destro sopraffino: è lui che organizza la difesa, arretrando spesso al punto da assumere il ruolo di autentico «libero», dirige l’attacco spostandosi da destra a sinistra con grande rapidità, batte tutti i calci d’angolo. Il gioiello resta Kolotov, ex mediano di spinta, diventato centravanti arretrato: Blochin e Onishenko hanno il compito di creare vuoti al centro dell’area di rigore, dove Kolotov, che ha anche un ottimo gioco di testa e grandi capacità acrobatiche, si inserisce per battere a rete.

Ma le speranze della nazionale di Kiev guidata da Lobanovski naufragano nel 1976 quando i sovietici escono ai quarti dagli Europei (eliminati dalla Cecoslovacchia) e la parentesi federale si chiude per il santone di Kiev, che tuttavia continua a vincere entro i confini, con il titolo nel 1977 e la Coppa nel 1978. In Europa la Dinamo non si ripete e nella Coppa Campioni 1975/76 esce ai quarti contro il Saint-Etienne e nel 1978/79 addirittura negli ottavi contro gli svedesi del Malmö.

Il primo ciclo della grande Dinamo Kiev, trionfatrice in patria e in Europa e trapiantata in nazionale, è finito. Cultore del lavoro, Lobanovski ha però in testa un’altra grande rivoluzione, che trascende le dimensioni del suo club. In anticipo sui grandi cambiamenti che di lì a poco spazzeranno via la vecchia Unione Sovietica, si propone di trasformare i calciatori in professionisti a tutti gli effetti. Diventa l’animatore occulto dell’Unione calciatori, organizzazione che con il reperimento di risorse consentirà alle società di autofinanziarsi e ai giocatori di triplicare i bassi proventi di un’attività vicina al dilettantismo puro anche ai massimi livelli.