BENVENUTO CAMINITI: Ragazzi di latta

Da picciotto palermitano del quartiere del Capo a bomber della Juventus e della Nazionale. La prima autobiografia del campione Totò Schillaci, consacrato “eroe-mundial” di Italia ’90.


Una delle tante intuizioni di Vladimiro Caminiti: il passato dell’uomo, la sua storia non si possono separare dal presente del calciatore. Sono una cosa sola. Mi fa piacere scrivere questa prefazione al libro che Benvenuto, fratello di Vladimiro, ha dedicato a Schillaci. Benvenuto fa l’avvocato, è rimasto a Palermo ed è sensibile ai personaggi dello sport siciliano, non necessariamente calciatori (penso a un altro Salvatore, Antibo). M’è parso di cogliere una sorta di complicità tra lui e Schillaci, o meglio tra lui e la scarsa voglia di raccontarsi di Schillaci, qualcosa che definirei rispetto del silenzio. Un giornalista di professione avrebbe scavato di più, anche su dettagli banali, che ne so, cosa si mangia alla tavola dei Savoia, com’era la vita in Giappone.

I tempi di questa biografia di Schillaci sono dunque scanditi da Schillaci. Un atleta di cui spesso mi sono chiesto: dov’è andato a finire? Perché molti li ritroviamo, commentano il calcio in tv pubbliche, private o a pagamento, hanno spazio sui quotidiani, fanno gli allenatori o i dirigenti. Schillaci era sparito come se tornare a Palermo lo avesse portato più lontano che in Giappone. Curiosa anche la sua carriera: 7 anni al Sud, al Messina, 5 al Nord, nel calcio potente (Juve, lnter), 4 in Asia. Nessuna via di mezzo, nessuna squadra di mezza classifica, nessuna voglia di provare a fare qualcosa di diverso da quello che si sentiva in grado di fare: i gol.

Certo, chi nasce in via della Sfera è in qualche modo predestinato, e la «palermitudine» di Schillaci può averlo condizionato. Ma le sue partite dell’ infanzia non sono diverse, nel racconto, da quelle di Rivera, di Pelè, di Maradona: il primo campo è sempre stata la strada, il primo riconoscimento al valore quello di essere chiamato a giocare contro ragazzini più grandi, il primo merito calcistico quello di fare tanti gol, il primo premio partita quattro soldi da spendere in pizzeria.

Se ripenso a Schillaci, non vedo un gol ma un dopogol, quello con l’Austria, anche quello un segno del destino perché non capita a tutti di segnare in un Mondiale 4 minuti dopo l’ ingresso in campo, e di testa per giunta su cross di Vialli, uno che dei cross quasi sempre era destinatario, quasi mai autore. Rivedo un’espressione da citazione montaliana (il girasole impazzito di luce), gli occhi sbarrati in una follia allegra, quella del povero che ha trovato un sacchetto di dobloni e crede che sia uno scherzo, non può toccare proprio a lui e invece sì, non sta sognando e non è uno scherzo, è la vita.

Erano le notti magiche di un’Italia che meritava qualcosa di più del terzo posto, ed erano le notti magiche di Totò Schillaci. Uno che, a rileggere le cifre, nella nostra serie A ha segnato 37 gol, che non sono molti. Ma in quel 1990 Totò, per i gol e per la maschera, era diventato il simbolo del nostro calcio, una specie di uomo della provvidenza, di spiritato jolly saltato fuori dal cilindro della panchina. Non era bello come Maldini, elegante come Baggio, poderoso come Vialli, freddo come Baresi ma accidenti se segnava.

II dopomondiale è un ritorno alla normalità, un po’ opaco, credo con più amarezze di quante Schillaci sia disposto ad ammettere. Ogni terra, quando si è stati in cielo, si assomiglia. Né alla Juve né all’ Inter segna come prima, ed ecco il taglio netto, un Milano-Tokyo che allora sembrava da incoscienti. Era invece una scelta coerente.In Giappone, oltre a pagarlo bene, non gli chiedevano di cambiare il suo modo di giocare, non gli imponevano sedute alla lavagna tattica: bastava che giocasse per il gol, come aveva sempre fatto.

Una carriera irregolare la sua, frastagliata, ma tutto sommato coerente. II calciatore Salvatore Schillaci ha sempre vissuto da emigrante: palermitano a Messina, siciliano al Nord, italiano in Giappone. è stato sempre minoranza, costretto a giocare, lui attaccante in campo, in difesa fuori campo. Adesso, fra le varie attività, avvia al calcio i ragazzi di Palermo, e forse in qualcuno rivede se stesso, forse no perché sono anni diversi. A lui bastava un motorino, perché i telefonini non c’erano. Chi è più bravo avrà una maglia rosanero, due colori che sono il risultato di una vita, l’ ottimismo e il pessimismo, il bene e il male. Uno psicologo potrebbe dire che Schillaci cerca, per conto terzi, quel che non ha mai avuto lui: quella maglia rosanero. Ma io non sono uno psicologo e allora dico che il Centro Ribolla è comunque una bella opportunità da cui altre storie verranno.

Benvenuto Caminiti
Ragazzi di latta
Limina, 2003
pp. 160