Numeri e Statistiche, ecco come cambia il calcio

Da qualche tempo le maggiori squadre di calcio hanno un fuoriclasse nascosto: il matematico, che trasforma le partite in algoritmi. Ecco come la statistica sta cambiando calciomercato e classifiche.


Sono al tranquillo centro sportivo del Manchester City, a Carrington. È una splendida giornata di sole. Il difensore Kolo Touré arriva sfrecciando su un macchinone nero che sembra uscito da Il Padrino. Carrington è abituata a gioiellini del genere: anche il Manchester United si allena lì. «Benvenuti visitatori di Abu Dhabi» è la scritta che campeggia sulla facciata azzurro cielo del centro. La squadra è di proprietà della famiglia regnante di Abu Dhabi, e uno dei primi provvedimenti dei nuovi padroni è stato assumere un’équipe di statistici.

All’interno della struttura incontro Gavin Fleig, responsabile dell’analisi delle prestazioni del City. È un signore gentile, dai capelli rossicci e impeccabile nel pullover nero della divisa ufficiale del team. Fleig è quasi uno sconosciuto oltre i confini di Carrington, ma è uno dei responsabili della rivoluzione informatica che sta investendo il calcio. I dati relativi ai giocatori hanno cominciato a dettare le mosse dei club, specialmente quelle relative al calciomercato estivo.

Fleig inizia raccontandomi come, poco tempo fa, e con sua grande gioia, il City si è procurato statistiche su ogni giocatore della Premier League. «Immagina che stiamo cercando un centrocampista offensivo. Vogliamo uno con una percentuale di passaggi utili dell’80% e con molte presenze in campo». Fleig inserisce i due parametri nel suo portatile, ed ecco comparire sullo schermo i volti dei pochi giocatori che possono vantare queste caratteristiche. Oltre agli scontati Cesc Fàbregas dell’Arsenal e Steven Gerrard del Liverpool – non c’era bisogno delle statistiche per sapere che sono forti – appare a sorpresa Kevin Nolan del West Ham. I numeri non te lo faranno ingaggiare su due piedi, ma magari ci farai un pensierino…

Negli ultimi anni, dopo tante false partenze, i computer delle maggiori squadre inglesi hanno cominciato a svelare le statistiche che contano veramente. Un esempio? «Le quattro squadre migliori riescono a mantenere un’altissima percentuale di passaggi utili nella trequarti di campo. Da quando sono arrivati da noi Carlos Tévez, David Silva, Adam Johnson e Yaya Touré, solo negli ultimi sei mesi, il nostro possesso palla nella trequarti è cresciuto del 7,7%», mi spiega Fleig. Ma ciò non significa che siano stati ingaggiati per via delle statistiche, precisa l’analista.

Ci sono club che si affidano alle statistiche più di quanto non faccia il Manchester City. Recentemente ho fatto visita a diversi protagonisti di questa rivoluzione, e mi ha sorpreso quanto terreno abbia conquistato. «Abbiamo qualcosa come 32 milioni di dati su 12-13mila partite», mi ha raccontato una mattina di febbraio Mike Forde, il performance director del Chelsea. Il calcio sta diventando uno sport intelligente.

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Fin dall’avvento dei computer, alcuni pionieri nel mondo del calcio hanno provato a usare le statistiche per giudicare i calciatori. Tra di loro c’era il futuro allenatore dell’Arsenal, Arsène Wenger, laureato in economia e con il pallino della matematica. Alla fine degli anni ’80, quando allenava il Monaco, Wenger usava Top Score, un programma sviluppato da un amico. Un pioniere più improbabile fu lo scomparso Valeri Lobanovski, grande allenatore ucraino con il pallino… della vodka. A Kiev, nel ’92, l’etologo di Lobanovski, il professor Anatoly Zelentsov, mi fece provare il videogame che la Dinamo Kiev aveva sviluppato per testare i giocatori. Quando Lobanovski affermava cose del tipo «una squadra che sbaglia al massimo il 15-18% delle azioni è imbattibile» non stava tirando a indovinare. I numeri erano stati studiati dal team di Zelentsov.

La svolta decisiva, però, si è verificata nel ’96, dopo che Opta Index cominciò a raccogliere i dati dalla Premier League, spiega il tedesco Christoph Biermann, autore di DieFuBball-Matrix (“La matrice del calcio”), il precursore di tutti i libri sulla statistica applicata al calcio. Per la prima volta, le società potevano sapere per quanti chilometri correva un giocatore e quanti passaggi aveva fatto. Altre società di analisi comparvero sul mercato. Alcuni allenatori cominciarono a guardare le statistiche. Nell’agosto del 2001 il Manchester United guidato da Alex Ferguson vendette a sorpresa il difensore Jaap Stam alla Lazio. Alcuni pensarono che Ferguson stesse punendo l’olandese per aver pubblicato una sciocca autobiografia.

Invece, anche se l’allenatore non lo ammise pubblicamente, la cessione fu in parte dettata dalle statistiche. Analizzando i numeri, si era ritenuto che il difensore, allora 29enne, fosse sulla via del declino. Ma Ferguson sbagliava. Come molti altri uomini di calcio agli albori di questo particolare approccio, l’allenatore dello United non aveva studiato i dati giusti. Stam non era affatto in declino e giocò ottime stagioni in Italia. Eppure, questa cessione è passata alla storia del calcio come un trasferimento pesantemente influenzato dalle statistiche.

Wenger ha portato il metodo dell’analisi delle partite all’Arsenal. Ha dichiarato che il giorno dopo un incontro è come un drogato in astinenza: va subito a controllare le statistiche. Intorno al 2002 cominciò a sostituire regolarmente Dennis Bergkamp verso la fine della partita. L’attaccante andava a lamentarsi da Wenger, ma oggi ricorda: «Mi faceva vedere le statistiche: “Guarda, dopo 70 minuti hai cominciato a correre di meno, la tua velocità è diminuita”. Wenger è un professore di calcio».

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Tra gli insospettabili troviamo il nuovo allenatore del West Ham: “Big Sam” Allardyce. Allardyce giocò un anno nel Tampa Bay, in Florida, e rimase affascinato dal modo in cui gli americani applicano la scienza e la statistica allo sport. Nel ’99 diventò l’allenatore della piccola squadra del Bolton e, non potendosi permettere i giocatori migliori, si accontentò di buoni statistici. Questi svelarono una statistica in particolare che stregò Allardyce. «Normalmente in una partita la palla cambia piede 400 volte», recita Forde del Chelsea, che si è avvicinato al mondo del pallone proprio grazie ad Allardyce. “Big Sam” martellava i suoi calciatori con questo dato. Per lui racchiudeva tutta l’importanza del ritirarsi immediatamente in difesa nel momento in cui si perdeva palla. Più in concreto, le statistiche fornivano ad Allardyce una fonte di informazioni per segnare più facilmente attraverso calci d’angolo, rimesse laterali e punizioni. Fleig, altro discepolo di “Big Sam”, ricorda che quasi la metà dei gol del Bolton veniva realizzata su azioni da fermo, contro una media del 33% delle altre squadre del campionato.

Nel 2003 la rivoluzione della statistica applicata al calcio ricevette un nuovo impulso dall’America, quando Michael Lewis pubblicò il suo libro sul baseball intitolato Moneyball. Alcuni addetti ai lavori del calcio inglese lo lessero e ne rimasero colpiti. Il libro racconta come il general manager degli Oakland Athletics, Billy Beane, utilizzasse le statistiche per valutare i suoi giocatori. Con l’aiuto dei dati, la piccola squadra degli Athletics in poco tempo ottenne risultati ben oltre le aspettative, finché anche i club più grandi cominciarono ad assumere degli statistici. I Boston Red Sox vinsero due World Series adottando i metodi descritti in Moneyball.

A febbraio sono andato a trovare anche Beane. Abbiamo fatto una chiacchierata in quello che sembrava un ripostiglio, ma che in realtà è lo squallido spogliatoio degli Athletics. Beane, che sarà presto interpretato da Brad Pitt nel film Moneyball, mi ha parlato con entusiasmo della statistica applicata al calcio. Co-me molti americani si è appassionato al nostro sport europeo con il fervore morboso tipico di chi si è convertito. È sicuro che il calcio diventerà «più di una scienza», come ha già fatto il baseball. «Mettiamo che uno azzecca una scelta il 30% delle volte grazie all’istinto. Se si trova un modo per aumentare la possibilità di riuscita al 35%, si crea un vantaggio del 5%, che nello sport può essere determinante». Beane non ha dubbi sul fatto che tutti adotteranno il sistema.

Anche Mike Forde un giorno decise di fare un “pellegrinaggio” a Oakland, per rivolgere qualche domanda a Beane sull’utilizzo dei dati statistici. La cosa si rivelò complicata perché era Beane che continuava a incalzarlo con domande sul calcio: «Solo nell’ultima mezz’ora riuscii a farlo parlare del suo ruolo nel baseball», ride Forde. I due divennero amici. Il francese Damien Comolli, ex assistente di Wenger, è a sua volta amico di Beane. Nel 2005 Comolli è diventato general manager del Tottenham e lì ha cominciato a servirsi delle statistiche.

I tre anni trascorsi da Comolli nella squadra del nord di Londra sintetizzano molte delle prime battaglie della rivoluzione statistica. Il calcio inglese è sempre stato diffidente nei confronti della gente istruita. Il tipico manager era un ex calciatore che aveva lasciato la scuola a 16 anni e comandava nel suo club come un dittatore. Si affidava all’istinto, non ai numeri. Non avrebbe dato facilmente ascolto a un francese che studiava le statistiche e che non era stato un calciatore professionista. Co-molli si ritrovò a combattere come un “sapientone contro gli atleti”. Il Tottenham gli deve molto (come la scoperta dell’al-lora 17enne Gareth Baie). Eppure fu licenziato.

C’era sempre una domanda a cui i “sapientoni” dovevano rispondere. Sì, dicevano i tradizionalisti, le statistiche potrebbero essere utili in quegli sport che, come il baseball, non prevedono un movimento perenne. Ma il calcio non è uno sport troppo dinamico per poter essere misurato? «Anche noi spesso ce lo chiediamo», dice Forde. Tuttavia, i sapientoni una risposta ce l’hanno. Innanzitutto i bravi matematici sono in grado di affrontare sistemi complessi. Al Chelsea, per esempio, uno degli uomini di Forde ha un passato nella modellazione stocastica applicata alle assicurazioni. Il calcio – sport in cui 22 uomini giocano su un campo limitato e con regole fisse – non è di certo più complesso. Secondo punto: negli ultimi anni, uno sport dinamico come la pallacanestro ha fatto ampiamente uso di statistica. «Se si può fare nel basket», afferma Beane, «allora si può fare anche nel calcio». Terzo: un gol su tre viene segnato su azioni da fermo, che si possono studiare proprio come nel baseball.

I nuovi cervelloni potrebbero dedicarsi soprattutto al calcio-mercato. E i club più attenti ne trarrebbero dei vantaggi. Anche economici, considerando che con lo stipendio medio di un calciatore si potrebbe assumere un plotone di statistici… Ma, per certi versi, il mondo del pallone continua a diffidare dei numeri. «Non è facile far andare d’accordo un eccellente statistico con un allenatore dai metodi tradizionali», mi ha detto Forde. E infatti i baluardi della rivoluzione statistica sono state quelle squadre i cui allenatori si fidavano dei numeri. L’Arsenal di Wenger e il Bolton di Allardyce sono stati i primi che hanno cominciato a valutare i giocatori come fanno gli investitori finanziari con i futures.

Prendiamo, per esempio, l’acquisto da parte del Bolton del 34enne centrocampista Gary Speed nel 2004. Sulla carta era troppo vecchio, ma il Bolton osservò che i suoi dati fisici reggevano il confronto con quelli di giocatori più giovani dello stesso ruolo che all’epoca erano ai massimi livelli, come Steven Gerrard e Frank Lampard. I dati dicevano: «L’età non sarà un problema». E infatti Speed ha giocato con il Bolton fino all’età di 38 anni.

I più oculati cervelloni del calcio sanno anche che i dati statistici possono essere un importante elemento per la valutazione di un giocatore, ma non quello determinante. Biermann racconta che Wenger nel 2005 cercava un erede del centrocampista tuttofare Patrick Vieira, in partenza verso la Juventus. Voleva un giocatore che fosse in grado di coprire molto campo. Analizzò i dati di diversi campionati europei e individuò uno sconosciuto ragazzino dell’Olympique Marsiglia. Si chiamava Mathieu Flamini e percorreva in media 14 chilometri a partita. Questo dato, da solo, non era sufficiente. Flamini correva nella giusta direzione? Sapeva giocare a calcio? Wenger lo andò a vedere, capì che ci sapeva fare e lo ingaggiò per quattro soldi. Flamini divenne un giocatore importante all’Arsenal, prima di trasferirsi al Milan nel 2008.

Al contrario, i club che si affidavano all’istinto anziché ai numeri hanno cominciato a risentirne. Nel 2003 il Real Madrid ha ceduto Claude Makélélé al Chelsea per 17 milioni di sterline. Sembrava una cifra eccessiva per un discreto centrocampista difensivo di 30 anni. «Makélélé non ci mancherà», sentenziò il presidente Fiorentino Pérez. Il Real commise un terribile errore: Makélélé avrebbe trascorso 5 anni fantastici al Chelsea e, se i blancos avessero studiato le statistiche, avrebbero scoperto ciò che lo rendeva unico…
«La maggior parte dei giocatori è molto più attiva quando la propria squadra attacca», spiega Forde. «In pochi si dimostrano forti in fase difensiva. L’84% della massima attività in campo di Claude si verificava quando la squadra avversaria era in possesso di palla, esattamente il doppio dei suoi compagni». Insomma, guardando una partita, potevamo non accorgerci di Makélélé, ma in realtà…
«Le statistiche ti permettono di vedere oltre la superficie», dice Beane. «Mi fido più delle statistiche che degli occhi. Ho visto troppi prestigiatori tirar fuori conigli dal cappello…».

Inizialmente si calcolavano i passaggi, i tackle e i chilometri di ogni calciatore, e i club usavano questi numeri per valutare i giocatori. Ma presto iniziò a diventare chiaro che queste informazioni – che adesso sono mostrate da tutte le tv – non significavano poi tanto. Forde ricorda i primi tentativi di dare un significato ai dati sui chilometri: «C’è una correlazione tra la distanza totale coperta e una vittoria? La risposta era invariabilmente no». Anche i tackle sembravano un parametro di poco conto. C’era l’esempio lampante del grande Paolo Maldini. «Faceva un tackle ogni due partite», dice Forde mestamente. Maldini si posizionava in campo talmente bene che non aveva bisogno di ricorrere ai tackle, contraddicendo chi giudicava i difensori sulla quantità dei tackle, come aveva fatto Ferguson quando aveva ceduto Stam.

Oggi, finalmente, gli analisti stanno isolando i dati che interessano veramente. «Gran parte di questo lavoro è brevettato», rivela Forde. «Il club ha sostenuto tanto questo studio e vogliamo proteggere certi dati». Ma alcune scoperte stanno diventando di pubblico dominio. Per esempio, anziché i chilometri coperti, ora i club preferiscono analizzare le distanze percorse alla velocità massima. «C’è una correlazione tra il numero degli scatti e una vittoria», mi aveva detto già nel 2008 il preparatore atletico del Milan Daniele Tognaccini.

Per questa ragione Fleig studia «il rendimento ad alta intensità di un calciatore. In sostanza si tratta della capacità di raggiungere la soglia di velocità di 7 metri al secondo». Se si fosse considerato questo aspetto, nel 1999 la Juventus non avrebbe commesso l’errore di vendere Thierry Henry all’Arsenal. «Per Henry raggiungere i 7 metri al secondo non è un’impresa complicata», spiega Fleig. Il francese ci riusciva sempre appena si metteva a correre. I club hanno imparato a isolare sia gli scatti dal resto dei modi di correre in campo, sia i passaggi decisivi da quelli di poco conto. Su un monitor a Carrington, Fleig mostra una lista di giocatori del City, classificati in base al numero di occasioni che hanno creato. Spicca il nome di David Silva, i cui assist hanno propiziato un 33% di occasioni da gol in più rispetto ai compagni di squadra.

La rivoluzione nel calcio è solo all’inizio. Chi ha pensato più degli altri al futuro delle statistiche è il direttore sportivo degli Oakland Athletics. Farhan Zaidi è un uomo dotato di senso dell’umorismo, laureato in economia al Mit di Boston. È uno che ti aspetteresti di incontrare in un bar dopo un concerto, più che in una società sportiva. Per lavoro, Zaidi si nutre di statistiche sul baseball. Ma lui e Beane hanno due passioni in comune: il rock degli Oasis e il calcio. Zaidi sa quanta strada ha fatto la statistica nel baseball e per questo è in grado di fare delle previsioni sul calcio. Il Sacro Graal dello sport, secondo lui, è una statistica che chiama Goal Probability Added.

Questo dato rivela quanto le azioni di ogni giocatore in tutta la sua carriera abbiano aumentato le possibilità della sua squadra di segnare o quanto le abbia diminuite. Ho chiesto a Zaidi se un giorno gli esperti potranno dire una cosa del tipo «Luis Suàrez ha un Goal Probability Added di 0,60, Carroll solo di 0,56». Mi ha risposto: «Sono propenso a pensare che accadrà, perché è già successo nel baseball. Adesso parliamo dei giocatori come non ci saremmo mai sognati di fare 10 o 15 anni fa». Nella loro battaglia contro gli atleti, i sapientoni si stanno finalmente prendendo una rivincita.

Testo di Simon Kuper, giornalista e saggista.
II suo ultimo libro dedicato allo sport, Calcionomica, è edito in Italia da Isbn.