Bruno Pizzul, memorie di un cronista

Bruno Pizzul, con la sua voce, ha attraversato più di trent’anni di calcio dietro il microfono della Rai, diventuanto nel tempo una vera e propria icona. Ecco di seguito, avvolti da un leggero manto di nostalgia, i suoi ricordi più belli…


LE ESPERIENZE COME CALCIATORE

Non ho avuto grande successo con la carriera calcistica, tuttavia ho iniziato a calcare i campi di calcio fin da ragazzino nella squadra del mio paese (Cormons, in provincia di Gorizia, ndr.), poi sono passato a giocare con il Pro Gorizia, in seguito sono stato acquistato dal Catania, che giocava in Serie B, e vi sono rimasto due anni, prima di passare un anno e mezzo a Ischia, in prestito, per poi tornare nuovamente al Catania. Non sono diventato un campione ma ho comunque militato ai margini del calcio professionistico, abbastanza a lungo per maturare esperienze che si sono rivelate molto utili per la successiva professione

Bruno Pizzul nel 1958
Bruno Pizzul nel 1958

IL GRANDE TORINO

Era amato da tutti proprio perché era uno squadrone nel vero senso della parola. Nell’immediato dopoguerra ha segnato un’epoca; era la squadra di Valentino Mazzola, un insieme di campioni del quale si diceva che, quando capitan Valentino si rimboccava le maniche e dava il segnale ai compagni, in un quarto d’ora aveva una forza devastante, batteva tutti (il “quarto d’ora granata”, ndr.). Era una squadra che impersonava lo spirito del cuore granata: volontà, orgoglio, tenacia combinate con un grandissimo talento. Era una squadra che costituiva anche l’ossatura della Nazionale: più volte l’Italia è scesa in campo con dieci giocatori granata su undici. Tuttavia, questo non impediva che qualche volta venisse sonoramente battuta, come nel maggio del ’48, al “Comunale” di Torino contro l’Inghilterra, quando perdemmo per 4 a 0, e ricordo che io,ragazzino, dopo aver ascoltato la radiocronaca di Carosio, ero abbastanza arrabbiato, animato da sacro furore patrio, perché pensavo che avessimo perso immeritatamente per colpa dell’arbitro, per la protervia degli avversari. In realtà, una volta arrivato in Rai, andai a vedere i riflessi filmati di quella partita e mi resi conto che avevamo perso 4 a 0 ma ne avremmo dovuti prendere otto o dodici perché veramente non c’era corsa. Ciò non toglie che il Torino era entrato nella fantasia e nell’amore popolare, e io stesso non nascondo che, pur non essendo un tifoso viscerale, amo seguire le fasi del Torino perché anch’io ero un po’ granata a quei tempi.

BEI TEMPI…

Ho nostalgia del fatto che era un periodo nel quale per aggregarsi, stare assieme e giocare, bastavapochissimo: un oggetto rotondo qualsiasi, anche se non era propriamente un pallone. Da ragazziniabbiamo giocato a lungo con delle palle fatte di straccio, con i vecchi calzerotti che venivano messiassieme e quindi, quando c’era l’opportunità anche solo di toccare un pallone di cuoio, malgrado fosse sberciato, era una festa grande. Naturalmente i tempi sono cambiati. Allora c’era una forma diaddestramento autonomo, personale: si prendeva a calci tutto ciò che era rotondo e inevitabilmentesi acquisiva una certa familiarità con gli oggetti rotondi che risultava utile per diventare poi dei giocatori di calcio più o meno bravi, ma questo dipendeva dal talento della persona. Sicuramente il fatto che si giocasse per strada o comunque negli oratori, con delle palle o palloni che fossero, costituiva una forma di apprendimento personale molto positivo. Ad esempio, era impensabile che, anche nelle squadre di paese che militavano nelle categorie inferiori, potesse essere scelto uno che non fosse già bravo. Non esistevano forme di reclutamento: si imparava tutti autonomamente, e poi i più bravi venivano scelti per giocare nella squadra del paese e da lì, pian piano, si andava avanti. Oggigiorno le cose sono completamente diverse e la testimonianza più chiara è che i ragazzi non si divertono più, tant’è vero che uno dei problemi fondamentali individuati dalla Federcalcio è l’abbandono precoce da parte dei giovani, che iniziano a giocare a calcio e poi smettono in breve tempo a causa delle pressioni provenienti dai genitori, che vogliono vederli diventare dei campioni, e dagli allenatori, che anziché farli giocare li sottopongono a una miriade di test e di esercizi fisici, il che comporta un inevitabile inaridimento dei vivai. Io vengo da una regione nella quale, fino a una trentina d’anni fa, c’erano almeno un centinaio di giocatori di Serie A e di Serie B mentreoggi non ce ne sono più; cominciano a giocare ma non vanno avanti. Si dedicano, è vero, ad altre discipline sportive ma il calcio è molto passato di moda tra i giovani in Friuli.

MESSICO 70, LA PRIMA VOLTA

Di quel Mondiale conservo dei ricordi molto particolari e piacevoli, forse più forti rispetto a tutti i tornei successivi, anche perché mi ero trovato in maniera abbastanza casuale e fortuita a diventare un telecronista della Rai, cosa alla quale non avevo mai assolutamente pensato. Mai nella vita avrei immaginato di fare il giornalista, tanto meno il telecronista sportivo; invece, per una serie di circostanze occasionali, partecipai a un concorso nel quale, con mia somma sorpresa, venni scelto per partecipare a un corso di preparazione professionale, assieme a gente come Bruno Vespa e la Buttiglione, e dunque venni assunto ritrovandomi, nel giro di pochi mesi, a svolgere un lavoro al quale non avevo mai aspirato. Qualche mese più tardi fui inviato ai Mondiali del Messico e i ricordi di quelle mie prime telecronache, di quelle mie prime esperienze, sono ancora scolpiti dentro di me proprio perché costituivano qualcosa di assolutamente strano, inatteso ed emotivamente molto forte. Per quanto che riguarda il gol di Pelé non me la presi, lì non c’era corsa, se non avesse segnato Pelé avrebbe segnato qualcun altro perché quel Brasile era nettamente più forte della nostra Nazionale e non c’è assolutamente nulla da dire. Semmai il rammarico è dovuto al fatto che la Nazionale italiana, pur avendo fatto benissimo, venne presa a pomodorate al suo ritorno, in linea con le attitudini deprecabili del nostro tifo per cui, da sempre, è meglio arrivare penultimi che secondi: il secondo è un posto che noi italiani non accettiamo. E questo è segno di una cultura sportiva che dobbiamo ancora perfezionare molto. Italia Germania 4-3 è stata una straordinaria avventura di carattere emotivo. Quei due tempi supplementari sono ricordati ancora come un incredibile susseguirsi di emozioni, un qualcosa di abbastanza differente dal calcio, perché lì, alla fine, chi stava in piedi segnava e il fatto stesso che in mezz’ora siano stati segnati tutti quei gol dimostra che di ormai calcio vero, giocato e ragionato, ce n’era molto poco; era soltanto una forma di sopravvivenza fisica e muscolare: chi stava in piedi faceva gol. Questo naturalmente non ha tolto nulla alla bellezza e al fascino di quella partita, che viene ancora ricordata non solo da noi ma in tutto il mondo.

CLIMA SURREALE A BAIRES 78

Dopo la conquista del Mondiale, gli argentini la festa l’han fatta. Questo denota una forma di partecipazione popolare festaiola, che in qualche modo strideva con il clima pesantissimo che si respirava in quegli anni, a testimonianza del fatto che il calcio ha dentro di sé una forza e un’attrazione del tutto particolare che gli consentono di restare qualcosa di festoso per gli uomini anche in momenti di difficoltà. Tuttavia il clima, al di là dell’aspetto agonistico, era effettivamente molto difficile. Avevamo un po’ tutti la consapevolezza che il Paese stesse vivendo sotto il giogo di una dittatura ferrea e feroce. Sapevamo che la situazione era veramente drammatica, anche se in via ufficiale si faceva di tutto per non far trapelare notizie di quel tipo. D’altronde, passando davanti alla casa Rosada (residenza del primo ministro argentino), vedevamo continuamente le processioni delle mamme vestite di nero che reclamavano notizie dei propri figli scomparsi. Poi si andava allo stadio e, almeno per quei 90 minuti, si dimenticava il clima terribile che caratterizzava il resto del Paese anche se, a livello di coscienza personale, non potevamo non sapere e non dire, nei limiti del possibile, quello che stesse succedendo. I momenti di angoscia maggiore erano l’ingresso e l’uscita dallo stadio perché durante la partita c’era questa forza strana, misteriosa del calcio che, quando è giocato, fa dimenticare tutto il resto.

SPAGNA 82, SUL TETTO DEL MONDO

Ai Mondiali di “Spagna ‘82” si può parlare di due finali: quella con il Brasile ma anche quella contro l’Argentina, che erano considerate le due superfavorite. Noi, dopo aver passato in maniera abbastanza stentata il girone di qualificazione a Vigo, fummo inseriti in questo secondo gruppo di qualificazione con due squadre contro le quali il pronostico non ci lasciava scampo: le battemmo entrambe giocando anche bene e da lì fu una volata finale. Secondo me in quel momento divenne di fondamentale importanza il fatto che l’Italia giocò la fase iniziale dei Mondiali di Spagna, come ripeto, a Vigo, che era l’unica zona della Spagna dove il clima era sopportabile. Io sono stato un paio di volte nel ritiro degli Azzurri: di sera bisognava andare al letto coperti adeguatamente perché faceva fresco, di giorno magari c’era il sole che picchiava però non c’erano le condizioni ambientali, quanto a temperatura terribili, presenti nel resto della Spagna. Io ho commentato parecchie partite a Siviglia, a Malaga, ad Alicante, a Barcellona dove si giocava con quaranta gradi all’ombra anche se il fischio d’inizio era alle nove di sera. Da quel girone di Vigo uscirono due squadre: l’Italia e la Polonia, che erano considerate le due formazioni più scassate dell’intero lotto. In realtà poi abbiamo visto che Italia e Polonia arrivarono fino in semifinale e io sono convinto che, se non ci fosse stata Italia- Polonia in semifinale quella sarebbe stata la finale. Perché, a parte la bravura dei giocatori, italiani e polacchi erano quelli che avevano quindici venti giorni di caldo torrido assolutamente straordinario in meno nelle gambe e sulle spalle. Tant’è vero che la finale con la Germania Ovest fu una sfida che noi vincemmo agevolmente, in quanto i tedeschi erano al lumicino per aver dovuto sopportare le avversità del clima e le fatiche di una terribile semifinale con la Francia andando ai supplementari e vincendo poi ai rigori dopo essere stati perfino sotto di due gol. L’Italia vinse facilmente, e probabilmente avrebbe vinto in qualsiasi situazione perché era entrata in stato di grazia ma lì fu molto agevolata da questi fatti legati più alla fatica fisica e alle condizioni climatiche che al resto.

PERTINI

A Pertini mi lega un sentimento d’affetto dovuto soprattutto alla sua spontaneità: per la straordinaria gestualità e mimica, per il suo saper dimostrare quello che aveva dentro in maniera aperta, senza badare troppo al cerimoniale, alla compostezza che un capo di stato dovrebbe sempre conservare. Era un uomo molto amato, proprio perché il popolo lo sentiva molto vicino, anche alle sue manifestazioni esteriori e senz’altro quel Pertini in tribuna, che sbatte più volte la pipa sul palco presidenziale, fu un valore aggiunto di quell’indimenticabile avventura spagnola.

L’AMAREZZA DI ITALIA 90

L’Argentina, probabilmente, non era più forte di noi anche se era una squadra molto compatta e tecnicamente ottima. L’unica cosa che avremmo dovuto evitare nell’organizzazione di quel Mondiale era di giocare a Napoli contro la squadra nella quale c’era Maradona, tant’è vero che all’inizio i napoletani non è che tifassero tutti per l’Argentina però la presenza di Maradona in qualche modo forse condizionò non solo gli spettatori ma, in parte, anche i giocatori. La partita fu giocata così così, risolta da un colpo di testa di Caniggia (che replicò alla rete iniziale di Totò Schillaci), ne aveva fatti due in tutta la sua carriera, propiziato da un errore accettabile di Walter Zenga in uscita. Quello fu un dispiacere un po’ per tutti, perché la sensazione era che l’Italia fosse una squadra apprezzata per la qualità dei singoli, per il tipo di gioco espresso, per il grande calore popolare che l’accompagnava, che avesse insomma tutti i numeri per vincere quel Mondiale. Invece perdemmo ai rigori e, naturalmente, fu una delusione abbastanza cocente.

USA 94, LA SVOLTA CON LA NIGERIA

La forza di quella Nazionale è stata quella di averci creduto fino all’ultimo ma lì, veramente, più che esaltare la bravura degli italiani va detto che ce l’hanno un po’ regalata gli africani. Io mi ero molto arrabbiato in quella telecronaca, ci furono anche delle polemiche, perché ero stato severissimo con la Nazionale italiana, l’avevo data già per spacciata in quanto si avvertiva la sensazione che non ci fosse partita. Gli avversari, dopo essere passati in vantaggio e aver giocato seriamente tutto il primo tempo, nella ripresa, avendo considerato dal loro punto di vista il fatto che l’Italia proprio non ce la facesse, cominciarono a giocare quasi prendendoci in giro, con colpi di tacco veroniche e altre cose del genere, poi ci fu anche l’espulsione di Zola, e stava maturando sempre più dentro di me la sensazione che quella partita fosse persa. Alla fine, ce la rimise in piedi con un gol a due minuti dal termine Roberto Baggio, che fu l’autentico trascinatore di quell’Italia, e poi vincemmo. Dopo il pareggio ero convinto che avremmo vinto noi, ma fino a quel momento se mi avessero detto che l’Italia avrebbe pareggiato non ci avrei creduto. Ero molto arrabbiato anche perché avendo vissuto per tutto il periodo del Mondiale negli Stati Uniti, ero stato a stretto contatto con la collettività italiana che era in condizioni di depressione paurosa perché la società americana era molto stratificata e ogni gruppo originario etnicamente ha una sua posizione; gli italiani, ad esempio, erano inferiori agli irlandesi, e noi avevamo perso con l’Irlanda, mentre è superiore a quella dei messicani, contro i quali giocammo male riuscendo solo a pareggiare e accrescendo il malumore dei nostri connazionali. Passammo avventurosamente la fase iniziale, venendo ripescati come terzi, e ci toccò giocare contro gli africani, e i nostri tifosi dicevano: adesso se perdiamo anche con la Nigeria dobbiamo tutti tornare in Italia, non possiamo più vivere. L’andamento della partita così deludente aveva acuito questo stato di frustrazione che in qualche modo avevo percepito anch’io, e per questo feci una telecronaca severissima contro gli italiani.

VALCAREGGI

Ferruccio Valcareggi lo chiamavamo tutti “zio Uccio”, proprio perché aveva questo tratto del tutto particolare, questo modo singolarmente affabile di trattare tutti, anche coloro che non conosceva, mettendo a proprio agio chiunque. Anche nella gestione della squadra lui non sembrava mai l’allenatore burbero, ma quasi un amico, un fratello maggiore che guidava il gruppo. Era un persona dolcissima, pur avendo un carattere ben definito, alla quale tutti volevano bene: dai giocatori ai giornalisti, che trattava sempre con grande garbo e signorilità. Era un triestino, diventato fiorentino d’adozione dopo aver giocato nelle file della Fiorentina, ed era un personaggio che si incontrava sempre, indipendentemente dal ruolo ricoperto, in Federazione, a Coverciano, che considerava la sua seconda casa dove andava a giocare a tennis fino a tarda età . Di “zio Uccio” conserviamo tutti un ricordo particolarmente gradevole e il fatto che non ci sia più ci fa sentire davvero un pochino più soli.

FACCHETTI

Ha avuto un’inimitabile carriera ed era il capitano per eccellenza nell’Inter e nella Nazionale. A livello umano era un compagno di vita, di viaggio, di gioco davvero straordinario. Io ho avuto il privilegio di essergli amico, di stare con lui anche al di fuori delle reciproche incombenze professionali. Giocavamo spesso a tennis, a scopa, a biliardo, e il fatto che lui avesse questa predilezione particolare per il gioco anche al di fuori del calcio era la testimonianza che aveva conservato l’animo di un fanciullo, il piacere di stare assieme giocando, misurandosi, confrontandosi sempre con uno stile e con un’eleganza del tutto particolari. Qualcuno ha detto che era fin troppo bravo, troppo buono, troppo ingenuo per diventare poi anche un dirigente di questo calcio così velenoso, percorso da un’infinità di situazioni negative, dall’incapacità di mantenere un minimo di onestà e correttezza nei propri comportamenti; quasi a dire che era uomo di troppe virtù per poter poi diventare anche un buon dirigente di calcio. In realtà, Giacinto, anche quando ha fatto il dirigente, le cose che doveva dire le ha sempre dette, solo che lo ha sempre fatto con decoro e compostezza. Il fatto che quando se n’è andato ci sia stato un così unanime cordoglio da parte di tutti, senza distinzioni di maglia o di bandiera, è la dimostrazione di quanto valore avesse un personaggio come lui per l’immagine del calcio italiano.