Gianni Brera, che diede vita a uno stile giornalistico innovativo e moderno, basato su una feconda vena letteraria e narrativa, ebbe il merito di introdurre numerosi neologismi, tuttora utilizzati in ambito sportivo e non. Andrea Maietti rivela la genesi di alcuni tra i più famosi
GOLEADOR
Scrive a proposito G. Brera: “Goal è termine inglese e significa scopo, fine, meta d’arrivo. Goal è divenuto universale come il calcio e non ha mai trovato surrogato in nessuna lingua, neppure in Italia al tempo dei furori xenofobi (a parole): si è tentato di eliminare il termine goal e si è adottato rete in sostituzione. Qualche volta, per necessità di scrittura, capita anche al cronista di servirsi dell’Ersatz, ma lo fa con impaccio, perché «segnare una rete» è piuttosto arduo. Per evitare la grafia inglese, è giusto invece che si usi gol, alla più semplice, come viene pronunciato. I sudamericani, che non hanno tradizioni troppo arcigne da rispettare in materia di lingua scrivono addirittura fùtbol, e dal sostantivo gol sono fantasiosamente giunti al verbo golear, che mi sembra bellissimo, talché non ho esitato a usarlo con la logica estensione al nuovo sostantivo goleador”.
Il termine indica pure un incrocio dell’inglese «goal» e dello spagnolo «toreador» o «matador». Né si può dimenticare che già negli anni trenta esisteva la voce «filtrador» (colui che filtra o penetra nelle maglie della difesa avversaria) attributo specifico del centravanti argentino Stabile. Il neologismo dunque potrebbe risentire di questa analogia. I sinonimi italiani sono assai meno suggestivi: da «marcatore» (colui che «marca o segna punti») al termine bellico «cannoniere» (cui peraltro Brera contrappone «fromboliere» essendo il calcio pur sempre un gioco che si limita a mimare la guerra. I palloni scagliati verso la porta gli evocano l’immagine della fionda piuttosto che quella del cannone. Fromboliere infatti deriva da frombola, incrocio tra fionda e rombola, piccola fionda).
Goleador è termine più fantasioso e gentile rispetto a cannoniere. Goleador suggerisce l’immagine dello schermitore che, «giunto alla fin della licenza», tocca, come il torero, dopo aver giocato col toro, lo trafigge con una rapida stilettata. Così a Brera viene inconsciamente di definire più spesso Nordhal o Riva come grandi frombolieri o bombers (rifacendosi in quest’ultimo caso lui pure alla terminologia bellica) e goleadores Meazza o Pelé: infatti mentre i gol dei primi due erano contrassegnati, per lo più, dalla violenza del tiro, quelli degli ultimi due erano caratteristici per il virtuosismo e la «finezza» dell’esecuzione. Si veda per esempio come un famoso gol dello juventino Bettega venga commentato da Brera: “Bettega si stava accentrando: in ritardo con il destro, ha posato il sinistro servendosene come di puntello antagonista: in tal modo ha potuto inclinare il destro interno: la palla, modicamente deviata è andata a infilarsi nell’angolino alla destra del portiere.”
II gesto atletico è stato estrosamente improvvisato e il fatto che la palla venisse lasciata passare oltre il piede sinistro ha avuto l’effetto di una finta irresistibile… Cudicini, il portiere, ha commentato quel gol con le parole di un saggio: che se un ragazzino di vent’anni riusciva a combinare prodezze del genere davanti alla folla impressionante di Milan-Juventus, le sue doti di goleador dovevano considerarsi eccezionali. Termini della stessa famiglia di goleador sono golear e goleada, che Brera mutua dal gergo brasiliano. Golear che talvolta Brera traduce in goleare indica ovviamente segnare un gol mentre è il punteggio alto fino alla umiliazione per la squadra che lo subisce. “E’ stato un assedio talora epico, sempre sconcertante, alla porta di Zoff… l’anima del tifoso che è in me paventava la goleada”.
LIBERO
Termine di accezione internazionale (dopo i mondiali di calcio del 1974 a Monaco di Baviera, vinti dalla Germania Federale, è stato girato un film su Beckenbauer, capitano della squadra tedesca, dal titolo italiano «Il libero»).
Il dizionario «Devoto-Oli» dà la seguente definizione: «Difensore libero da impegni di marcatura, posto alle spalle dei terzini, pronto ad entrare in seconda battuta sull’avversario sfuggito al controllo dei compagni di difesa».
Il termine nasce nel 1949. Campionato 1949-’50: la magna Juventus, prima in classifica, viene clamorosamente sconfitta 7 a 1 dal Milan. Riflettendo sulle insufficienze difensive del WM incominciò a premere perché il povero stopper centrale venga almeno protetto da un compagno, libero da incombenze di marcatura. Sul concetto di libero è basata la tesi di Brera che per il calciatore italiano il modulo più conveniente è quello del difensore alle spalle dei terzini e dall’attacco impostato sul contropiede. In Italia il modulo di Brera si andò affermando definitivamente a partire dal 1960 quando i tecnici Gipo Viani e Nereo Rocco impostarono la nazionale olimpica italiana secondo lo schema suddetto. Poi finalmente si imposero i difensivisti. Viani e Rocco assunsero la guida della squadra olimpica 1960 e da quell’anno si può dire che l’Italia possegga una scuola. Il modulo difensivo italiano è stato via via adottato in tutto il mondo. Perfino gli Inglesi, nel 1966, dovettero smentire se stessi e mettere un uomo libero accanto e dietro lo stopper.
MELINA
Termine mutuato da Brera dal gergo del basket. Così definisce il termine il dizionario «Devoto-Oli» molto attento ai neologismi sportivi: «Trattenere a lungo la palla passandola o ripassandola da un giocatore all’altro della stessa squadra allo scopo di perder tempo e talvolta con l’intenzione di umiliare l’avversario. (Voce nata a Bologna nel 1930 riferita al Basket, derivata da un tipo di gioco fatto nascondendo una pallina dopo averla fatta rimbalzare a terra)». Il termine è di alta frequenza nella cronaca di Brera. “Il Napoli disimpegna con diligenti palleggi, così insistiti, da rasentare a volte la melina”.
Si noti la voce «disimpegnare» che indica il liberarsi della palla in favore di un compagno meglio piazzato (anche di questo termine Brera si attribuisce la paternità). “La partita non era niente male nonostante le meline noiose e insipienti dell’Inter”. “Quando ha mollato la Lazio verso la mezz’ora, la Juventus è addirittura caduta in letargica melina”. Da melina Brera ricava melinare: “Batti e ribatti, gli azzurri non passano. Viene solo da chiedere se Pozzo abbia pensato di propiziare gli spazi offensivi giocando a melinare nella propria metà campo”.
Credo che a queste squisitezze non sia mai giunto il grand’uomo. L’intuizione di involvere a modulo degli anni Trenta, rinunciando all’ormai classico contropiede, è venuta a Brera dopo il 1970 quando il più grande attaccante italiano, Riva, ha dovuto in pratica lasciare il calcio per successivi gravi infortuni e non sono più emersi centro-campisti di valore: “Al calcio italiano mancano ancora e sempre i centro-campisti. La iattura è forse superabile studiando un modulo che consenta di giocare con il minimo dispendio podistico; un tempo questo modulo ci è venuto, papale papale, dai danubiani e dai sudamericani di nome italiano. Bisognerebbe involvere agli anni Trenta. Forse ci annoderemmo un poco al vedere trottignare tanti guaglioni di bello stile; in compenso torneremmo ad apprezzare finezze di cui non abbiamo neppure memoria”.
Brera insomma, dopo aver teorizzato il modulo difensivistico all’italiana, sembra volersi porre come «inventore» di un nuovo modulo: c’è certamente un po’ di presunzione, ma è questa anche una risposta polemica a tutti gli avversari (vedi G. Ferrata già citato) critici che lo accusano di ripetere da decenni le stesse idee sul calcio. Secondo A. Menarmi la voce melina deriverebbe dal «Gioco della melina» diffuso a Bologna nel 1908: consisteva nel passarsi un cappello tra ragazzi disposti in cerchio, mentre uno di loro, posto al centro, tentava di recuperarlo.
ABATINO
Si potrebbe definire il «proto-conio» di Brera. In effetti ha avuto grande fortuna. E’ ormai di accezione nazionale, così che Brera non lo usa più (la voce infatti non appare nelle cronache del 1975 e del 1976, se non in una sola occasione, modificata però in abatoncello riferito al calciatore Antognoni). Lo stesso Brera definisce il termine: “E’ vero, ti ho chiamato abatino (Rivera, n.d.s.). Abatino è termine settecentesco, molto vicino – per dirla schietta – al cicisbeo; un omarino fragile ed elegante, così dotato di stile da apparire manierato, e, qualche volta, finto.” Abatino per antonomasia è dunque Gianni Rivera, tanto bello a vedersi, quanto povero di coraggio fisico e vigore atletico. In verità, all’esordio, Rivera fu salutato da Brera come un messia del calcio italiano.
Ma la maturazione del bimbo prodigio deluse: Rivera affinò solo lo stile, senza mai diventare atleta. Accanto a lui si delineano a partire dal 1964 i vari Mazzola. Bulgarelli, Corso, Pascutti, Meroni, Mora, Fogli, Menichelli, Orlando. «Individuati gli abatini» è il titolo di un capitolo dell’ultimo libro di Brera che permette di fissare la data della coniazione del termine. “L’epiteto è spregioso e amaro insieme, oltre che un calibro tecnico-atletico del calciatore italiano”. L’amarezza viene dalla considerazione che gli italiani sono un popolo di «abatini»: “A Budapest gli «Europei» di atletica mi riconcilieranno con lo sport… Ma non mi faccio illusioni. Abatini siamo, e abatini, ahimé, resteremo.”
Il dizionario «Battaglia» riporta questa citazione dalle opere del Foscolo: «Una leziosità da vero abatino di Arcadia». Non c’è nessuna ragione per dedurre che Brera abbia mutuato la voce dal Foscolo, però curiosamente rilevo che anche i termini «leziosità, arcadia, arcade» sono ricorrenti nella terminologia breriana. Per esempio l’attaccante Bettega della Juventus è «così elegante da apparire lezioso», «Bernardini è un arcade», cioè vive fuori dalla realtà, vorrebbe fare degli «italianuzzi» una squadra di poderosi olandesi. Scherzosamente Rivera viene chiamato abate dopo una valida prestazione, mentre Antognoni è un abatoncello, perché, pur essendo più mobile agonisticamente di Rivera, appartiene alla stessa «razza» calcistica. Non manca una sfumatura di ribadita ironia nel suffisso «oncello».
PRETATTICA
Termine ormai classico nel gergo del calcio, di quelli di cui si è dimenticata la paternità breriana. Non è possibile stabilire esattamente la data di coniazione di questo neologismo.
Si può tuttavia supporre che esso non sia posteriore al 1960, anno in cui l’allenatore Helenio Herrera fu chiamato alla guida dell’Inter. Famosi infatti furono i duelli dialettici tra Herrera e Rocco, fondati appunto sulla pretattica: «Fare pretattica» da parte di un allenatore significa fare intendere all’allenatore avversario, mediante la stampa, nei giorni immediatamente precedenti la partita, una certa intenzione tattica per indurlo a prendere le misure contrarie. Ovviamente l’allenatore che fa pretattica imposterà poi la partita in modo del tutto opposto a quello preannunciato o lasciato intendere.
Nelle cronache del 1975 e del 1976 così come nell’ultimo libro di Brera («Storia critica del calcio italiano», Milano, Bompiani, 1975) il termine non appare una sola volta. Le ragioni sono soprattutto due: a) come già detto, Brera tende ad abbandonare i suoi neologismi quando questi siano diventati di uso comune; b) negli anni Sessanta l’uso della pretattica da parte degli allenatori aveva raggiunto limiti addirittura grotteschi, così che a lungo andare, «far pretattica» non serviva più a nulla. Oggi si può dire che quasi più nessun allenatore faccia più pretattica.
ATIPICO
Al di fuori di ogni possibilità di classificazione. Nel gergo calcistico Brera riserva l’attributo a quegli attaccanti che non hanno caratteristiche ben definite, tali da rientrare nei normali schermi del gioco. Atipico non è sinonimo di incapace, ma piuttosto di estroso e, se mai, di insofferente di una disciplina tattica.
Atipico è il solito Rivera, che non ha sufficienti polmoni per essere vero centrocampista, e ancor meno coraggio per essere attaccante puro. Ma il più famoso atipico è stato Sivori della Juve, che suggerì il termine a Brera: Sivori sapeva fare tutto con la palla, ma non soffriva di venire ancorato ad un ruolo preciso. Altro atipico famoso è stato Corso dell’Inter. Tra gli altri della categoria degli atipici si possono ricordare Antognoni e Causio di cui Brera diceva: “Causio: uno dei meridionali della squadra juventina. Atipico e discontinuo fino al dispetto”.
CENTROCAMPISTA
Brera in tradusse il termine negli anni cinquanta scrivendolo dapprima col trattino e, in seguito, (dal 1960 in poi) tutto unito. Il vocabolo è ormai da tempo di uso comune nel gergo del calcio ed è sorto dalla necessità di reperire una voce più appropriata rispetto all’evolversi dei moduli di gioco. Dalla classica disposizione a WM concepita dagli inglesi ed adottata anche dagli italiani dal 1945 al 1959, in cui i calciatori operanti nella zona centrale del campo si chiamavano mediani o mezze ali (a seconda che si muovessero in prevalenza al di qua o al di là della linea mediana del campo), si passa ad una disposizione più incline a proteggere la difesa (modulo chiamato «all’italiana») e poi ad una disposizione meno rispettosa dei ruoli frissi per cui ogni giocatore può operare in ogni zona del campo (modulo olandese degli anni ’70, detto anche calcio «totale»).
Centrocampista è il calciatore che opera a centro campo indipendentemente dal numero della maglia. Il termine è generico ed è comprensivo di ulteriori classificazioni: centrocampista può essere il regista (cioè colui che fa da perno e guida di tutta la squadra). A tal proposito, la voce regista, anch’essa di accezione ormai comune, viene attribuita a Brera da Angelo Stella nel saggio già citato. Ma può anche essere la mezzala di spola (colui che fa da spola tra un’area e l’altra come «gregario» del regista); il mediano di spinta (cioè colui che, partendo da posizione arretrata, avanza a spingere, a sostenere i compagni d’ attacco). Così Brera intende il centrocampista ideale: “Il centrocampista ha da avere istintivo o quasi il senso geometrico del gioco. Senza quello è votato al fallimento perché il centrocampo è un mare nel quale facilmente si affoga…”.
Tra i più celebri centrocampisti Brera suole ricordare: Balonceri, Ferrari, Meazza, Valentino Mazzola, Boniperti. Tra gli stranieri grandissimo è stato Schiaffino, mentre il pur validissimo Suarez dell’Inter anni ’60 fu, all’esordio, un esempio di ciò che il centrocampista non dovrebbe fare: “Un esempio aberrante mi viene fornito dalla partita di esordio sostenuta da Luis Suarez nell’Inter 1961 contro l’Atalanta: lo spagnolo tirò in porta o verso la porta qualcosa come ventisette volte, segnando un solo sparutissimo gol. Non avevo mai assistito a tanto sciupio, dettato dalla presunzione del fasso-tutto-mi e dalla vanità del «goleare»”.
Si noti nel passo su riportato il particolare numerico dei tiri effettuati da Suarez: ventisette. Brera è un cronista di tale scrupolo da rasentare la pignoleria: riempie il suo taccuino di fittissime note che rivede la sera in redazione prima di stendere il pezzo.
CURSORE
Voce dotta, dal latino cursor, registrata in documenti del XIV secolo nel senso di corriere, corridore. Testimonia certo gusto arcaizzante di Brera, che non è ostentazione di cultura come sostiene Flaiano, ma è funzionale alla descrizione della partita. Il gesto atletico deve essere nobilitato, servono dunque certi termini a colorire l’avvenimento. Si può ben dire con Giuliano Gramigna che la cronaca di Brera è «chanson de geste».
Cursore è il centrocampista votato a far da «gregario» a compagni stilisticamente più dotati, ma anche meno generosi e fisicamente fragili. Celebre cursore è stato Domenghini: “Domenghini è cursore di cieca furia podistica che, senza correre, non saprebbe pensar calcio…” Altro prototipo di cursore è Benetti del Milan, che Brera ha battezzato «troton» (il termine gli venne suggerito dall’allenatore paraguagio Heriberto Herrera che richiesto di un giudizio su Benetti rispose. «Es un troton») secondo una sua innata predisposizione ad ogni tipo di suggestione linguistica, compresa quella delle lingue straniere.
EUCLIDEO
Da Euclide, nel senso di geometrico, razionale, proprio della concezione euclidea dello spazio. E’ termine fondamentale per la concezione breriana del calcio. Non a caso il già citato libro «Il mestiere del calciatore», avrebbe dovuto avere come primo titolo: «Il calcio è geometria». Secondo Brera esistono in Italia due correnti principali di critica calcistica: la «scuola» napoletana che sarebbe fondata sui sentimenti e tenderebbe ad enfatizzare l’aspetto banalmente psicologico del gioco; e quella lombarda che aderisce all’aspetto tecnico del medesimo.
Gli esponenti più famosi della «scuola» napoletana (cosiddetta perché napoletani sono quasi tutti i suoi rappresentanti) sono stati Gino Palumbo e Antonio Ghirelli fino al 1970. La loro tribuna era «Il Corriere della Sera» che Brera, ironicamente chiamava «Partenope Sera». La «scuola» lombarda fa ovviamente capo a Gianni Brera insieme a una pletora di adepti che, quasi senza eccezione, non vanno oltre la mera ripetizione dei concetti del «maestro».
Brera rivendica di avere per primo scritto di calcio in Italia secondo rigore tecnico: «Per me anche Roghi, che scriveva benissimo, era un dannunziano di terza ruota. Veniva dopo Guido da Verona. Ricamava delle immagini dannunziane mariniane su un argomento che non conosceva, perché non vedeva nulla. Vedeva gente correre e tirar calci ma non sapeva niente di calcio».
Così Brera definisce il giocatore Capello del Milan: “E’ un sornione di classe. Ha pochi mezzi, poco fondo, sa scomparire astutamente quando gli vien meno la carburazione, ma ha perlomeno nitidezza di battuta e notevole senso euclideo”. Si riconosce dunque a Capello l’intelligenza di sapersi muovere e appostare in campo secondo logica, di interpretare il calcio secondo canoni geometrici, euclidei.
di Andrea Maietti
Tratto da “Calciolinguaggio di Gianni Brera” (Lodigraf 1976) e presente anche in “Com’era bello con Gianni Brera” (Limina 2002)