Gianni Brera: Vita, morte e miracoli di “Habla Habla”

Ha scritto un libro autobiografico intitolato “Io”, che non era la capra nutrice di Giove Ottimo Massimo, bensì il pronome personale di Helenio Herrera, insigne caudillo podologico, cittadino francese nato in Argentina da Paco el Sevillano e Maria Gavilan sua moglie. Paco era falegname; sua moglie Maria aveva mentito sui propri anni per venir assunta a far da servetta presso una famiglia inglese a Gibilterra. E’ da escludere che Helenito conservi dell’Argentina un ricordo men che sbiadito. I suoi lo generarono in un casone per emigranti disoccupati e qui lo tennero finchè Paco, amaramente sconfitto, trasferì i suoi penati sulle dune sabbiose di Casablanca (1919). Aveva tre anni Helenito quando gli Herrera lasciarono l’Argentina. Dirà tuttavia Helenio di sè d’aver giocato nel River Plate. Domanderò da ingenuo: perchè? Suvvia, seor: para el prestigio del fùtbol argentino. “Pero si no es verdad?” La risposta è una scrollatina di spalle, un risolino che stira il labbro superiore fino a scoprire gengive incarnite di roditore povero.

L’uomo sembra aver letto un manuale segreto sul modo di aver successo. Parla come un libro stampato, con un timbro di cialtronaggine che spaventa chiunque non abbia meritato le sue confidenze. Io ne divento biografo a sorpresa. Fatalmente siamo in polemica. E’ venuto di Spagna via Parigi. Mi ha portato gli omaggi un po’ ruffiani di père Gabriel Hanot, suo maestro di tecnica. Le père Gabriel è il solo cultore di pedate, in Francia, che abbia conseguito una laurea in Lettere. Non sa quasi niente di tattica. Crede al primo impatto che i russi abbiano creato una scuola di calcio e procura al suo allievo Herrera la qualifica di “entraineur dynamo”. Le père aveva scambiato il podismo con la tecnica. Era vecchio e non coglieva più nulla dei tempi nuovi. Disse a Herrera di me rendre visite à Milan parce que j’ètais le seul etc etc.

Herrera era stato assunto all’Inter. Moratti aveva pregato Frossi di andar a vedere chi fosse e come facesse questo fenomeno al Barcellona. Frossi, onest’uomo, disse di lui che arieggiava Rocco. Lo prese per un muscolare schietto, un maresciallo di pedata con metodi reboanti. Se Rocco avesse mai applicato i metodi Herrera, nessun carisma l’avrebbe sostenuto. Herrera aveva la spocchia francese e la supponenza spagnola: parlava bene francese e spagnolo ma faceva in italiano gli strafalcioni che danno prestigio in un Paese di ciolle come il nostro.

Gli consigliai di adottare il catenaccio (anno 1960-61). A stento si trattenne dal ridermi in faccia. Corrugò la fronte bozzuta sopra occhietti un po’ obliqui, da miope. Sentenziò che il WM inglese non consentiva alternative: era l’unico modulo-dio e lui, Helenio, era il suo profeta. Dopo quattro o cinque domeniche ebbe la ventura di affrontare Nereo Rocco a Padova e buscò di netto. Moratti digrignò quasi nel garantirmi che in settimana anche l’Inter avrebbe adottato il secondo terzino d’area. Fu Balleri, povera anima, ed Helenio ricordò di aver inventato il bèton nei lontani giorni in cui allenava il misterioso Puteaux (?). L’Inter contese il titolo alla Juventus e finalmente l’ottenne quando ebbe acquistato Luis Suarez, e Picchi fece il libero alle spalle di Guarneri. I vantoni francesi presero a dire che l’Inter s’imponeva secondo i principi dell’ècole franaise, rappresentata in Italia da Helenio Herrera. “Come lo consideri, Josè Mir?”, domandai un giorno all’amico e collega catalano. “Helenio – quello disse – es un fanfarron”.

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Ma intanto i risultati fioccavano. Dicevano di lui i colleghi argentini che usava battere di punta, tanto era brocco. Dalla panchina non vedeva nulla (non voleva si pensasse di lui che era miope). Se gli avversari variavano una marcatura, lui non se ne accorgeva punto. Rimproverato per questo, rispose a Moratti che i giocatori stentavano a capire una tattica preparata in diversi giorni: figuriamoci se potevano adeguarsi di acchito a una variante improvvisata! A parole era sempre razionale. Vittorio Pozzo lo detestava perchè al servizio dei milanesi. Lo chiamava Habla Habla e affettava di disprezzarlo per motivi di indole etica. Mentiva per la gola (come avrei capito in seguito). Helenio portò dalla Francia l’intervall training e tutto quanto riguardava il calcio podistico. Dal basket aveva preso i vizi scaramantici, ispirati a pratiche di non lontana origine tribale. “Quien ganarà?!”, soleva urlare come se minacciasse. E gli allievi, mostrandosi convinti: “Nosotros!” Poi gli capitò fra i piedi un piccolo dannato magiaro a nome Czibor: al minaccioso grido “quien ganarà?!”, Csibor si staccò dalla catena di mani e consigliò al mago (sorcier, brujo) di andarlo a chiedere nello spogliatoio degli ospiti. Czibor e Kocsis prendevano per il bavero Helenio, il cui tocco di palla era di epica rozzezza: e lui, se poteva escluderli, era lieto fino al dileggio.

Helenio era scappato in Francia dai cronici languori gastrici di Casablanca. Si era imbarcato su un veliero e lavava i piatti per aver da mangiare. A Parigi visse di espedienti e pedate, ma più di espedienti. Fu impiegato alla Saint Gobin e terzino della nazionale militare. Durante la guerra ebbe la tentazione di rivolgersi ai tedeschi e di farsi rimpatriare in Spagna. Gli andò meglio facendo l’infermiere e frequentando un corso serale di tecnica calcistica. Fu allora che le père Hanot lo prese a benvolere. Ebbe anche la guida della nazionale di Francia e assistette dalla panchina dei coqs alla loro clamorosa sconfitta interna con gli azzurri (1-3 nel 1948). Poi andò in Spagna a predicare il verbo nuovo (il n’est qu’un entraineur Dynamo, diceva di lui il buon Jean Eskenazi); da Barcellona approdò all’Inter, e in mezzo a tante cialtronate di subdola memoria “fassista” si andò poco a poco delineando una personalità di primo ordine. Non conosceva mezzi termini: o lo amavi o ti odiava. In Francia aveva fatto l’emigrante e aveva scontato l’inferiority complex del latino di seconda-terza serie convolando a incaute nozze con una spregiosa citoyenne di Montmartre.

Si vendicò inguaiandola di figli, poi cinicamente abbandonati con lei. In Spagna incontrò Maria e ne ebbe Helenito e Rocìo, che è il dolcissimo nome della rugiada. Dall’Italia alla Spagna mandò quattrini via Svizzera quando si accorse che i Paesi meno liberi sono anche i più ligi alle prerogative dei ricchi. Diventò milionario da noi e raddoppiò i suoi proventi lasciando Milano per Roma. Conobbe qui il suo ultimo amore, la soave Flora. Rispedì in patria Doa Maria e completò la triade dei matrimoni latini. Da Flora ebbe Helios, che significa sole. Acquistò una casa su un’isola veneziana e lavorò per giornali, radio e televisioni. Essendo ricco, non ambiva a guadagni alti e trovava sempre di fare. Mise gli occhiali, con gli anni, ed ebbe l’aria di servirsene bene.

Lo considero da tempo un patriarca della pedata latina. Nel suo orgoglio di povero ho letto meglio che nella millantata biografia del tecnico. Paco el Sevillano tratta con i facchini mori che rifiutano di salvare la grassa sposa Maria Gavilan caduta in acqua al momento di passare dalla nave al traghetto. Paco ha pochi soldini e si svena per amor della moglie, miracolosamente evitata dai pescicani. Così debbono abitare nelle misere baracche sulle dune di Casablanca. Helenio cresce brado e si prova finanche a rubare cibo per la famiglia affamata. Paco predica l’onestà ma l’appetito è sordo ad ogni argomento che non contempli il mordere con denti allupati. Helenio lo ricorda con sfida. E voi fatevi avanti, sepolcri imbiancati. Paco el Sevillano lo accompagna a veder partite di calcio: bevono un gazzosino in due e nascondono il vetro per riaverne i dieci ghelli del deposito. Quando sparirà un vetro, Paco rimprovererà a Helenito di averlo nascosto male, tanghero di uno.

La Francia degli Anni Trenta è un paradiso appetto del quale le dune di Casablanca servono solo a destare incubi. Signora, senta se non è miracoloso questo incenso per disperdere i cattivi odori (e le incendia sull’ uscio una pelle di coniglio). Il suo socio di pensione vive meglio: entra nei negozi di cappellaio, prova un cappello avvicinandosi allo specchio e alla porta, dalla quale si precipita per sparire. Lo spogliatoio di Milano si riempie di cartelli recanti slogan di pretta marca “fassista”. Ne ridono tutti sorpresi e divertiti. Helenio scrolla le spalle. I giocatori sono amati schiavetti ai quali viene via via sottratto il cibo ignorante. Capita da me Risti Guarneri, un bel giorno, e divora un salame lungo un braccio. Scrivo che l’Inter è scoppiata in semifinale di Coppa Campioni perchè tutti i suoi hanno gli occhi vitrei dei ciclisti già cotti ai piedi del Tourmalet. Lui raddoppia il lavoro per dimostrare – me lo dice Picchi – che sono un ubriacone sclerotico. A Lisbona, i resti dell’Inter hanno un quarto d’ora di autonomia. Poi si coricano per terra, mortificati dal mediocre Celtic. Non importa – ora mi dico – formalizzarsi. Nel calcio nessuno ha sempre ragione; nessuno ha sempre torto. Helenio ha dato la sua impronta a un’epoca. Ha vinto molto e anche molto perduto ma, tutto sommato, la sua è la figura d’un vincente. E come tale può dire nel calcio quel che gli aggrada: nessuno dei suoi molti figli perderà il pane per un pronostico mal azzeccato.

Gianni Brera
Repubblica – 03 settembre 1985