Gianni Brera: Bruno Conti, un gatto con il gomitolo

Dall’alto di uno dei suoi favolosi apicchi d’erba si è accorto di esser vecchio e per l’antica misura di cui ha sicurissimo ricordo bio-storico nel sangue ha deciso di calarsi finalmente fra noi e andarsene indenne ma, spero, anche ricco e felice. Giocava nella Roma. Era stato dirottato nel Genoa dei miei dissennati amori infantili da un’andaluso pastore di tori mancato, accaccone.

Lo aveva trovato esile: nel suo epos mattoide potevano sussistere solo titani, non già piccoletti, fossero pure di genio! Che Bruno avesse uranio non poteva capire un pastore di muscoli bruti, ma è giunto a immaginare poetico il gioco della palla: fantasia non era nel suo mondo. Bruno Conti se ne dovette emigrare dalla dolca Roma che il ponentino vellicava ogni giorno alle 17. Capitò a Genova, recente (per lui!) capitale del Tirreno.

Si trovò come a casa e ne addossò il merito o la colpa ai ricordi di libecciate favolose, frizzanti di salmastro e di umido. Prese a correre da ala spenzolando lingue da assatanato segugio. La Liguria concilia così sonnolenti meriggi (magari pallidi e assorti) che un cursore d’istinto può stupire fino al dispetto. Il genoano Bruno Conti correva ricordandomi quei cavallucci mongoli che a suo tempo montavano le orde di Gengis Khan. La lunga chioma liscia e nera oscillava sul suo collo come un’incolta criniera. La palla veniva da lui padroneggiata con piedi che parevano roventi. In realtà, viveva per donare, quell’irrazionale emigrante di Nettuno. E ben presto trovò il destinatario delle sue folate suicide (e ansanti): era un ligure di montagna un po’ sornione, con occhi azzurri da infettato di nord.
Fosse stato più vero ligure, si sarebbe chiamato Giobatta. Da piccolo borghese era invece Roberto, e il cognome suonava asprigno come un prugnolo selvatico, Pruzzo.

Poiché giocava interno con vocazione a segnare, Bruno Conti ne seppe esaltare gli istinti aggressivi, perfino le ambizioni acrobatiche: non per altro il posapiano di Croce dei Fieschi divenne goleador. Furbo come chi molto a lungo nei secoli ha navigato, Roberto Pruzzo intuì di dover seguire l’omino bruno che lo sapeva ispirare e tra la meraviglia generale snobbò la diva Juventus. Bruno Conti rientrò alla Roma e Roberto Pruzzo lo seguì convinto di conquistare ricchezza e fama. Il piccolo scugnizzo di Nettuno ritrovò l’aria dolca (solo intermittente a Genova) ed esplose il suo orgoglio per uno di quei misteri di cui è sempre ricco il bipede uomo. Allora provò pure ad inebriarsi di sé e dell’acrobazia compiuta a livello di gramigna: ogni stelo un apicco, e passare fra quelli volitando, la palla come un mondo azionato nel cosmo da misteriose forze magnetiche.

E’ anche nell’istinto dei gatti giocare lieve di artigli sul gomitolo sottratto alla comare: l’uomo che si diletta di acrobazia sull’erba è un fenomeno solitario, un prodigio di invenzioni minime e tuttavia impensate, esaltanti. Il corpo dell’ acrobata si contorce in mosse e contromosse obbedienti alla musica improvvisata ogni volta per vezzo poetico. Fosse riducibile a un metodo, questa arte apparirebbe subito risaputa, priva di effetti e dunque di valore; invece, ogni volta si inventa e sorprende. Nei soli giorni grami succede che l’agonismo tradisca l’acrobata: il piedone antagonista dell’avversario in tackle interviene a guastare tutto sul nascere: la forma da inventare sulle creste sublimi dell’erba si cancella di netto, l’artista si deprime, lo spettatore pensa a presunzione e dapprima dubita poi decisamente protesta. Ma io qui ricordo l’entusiasmo vissuto e insieme l’estasi del rimpianto.

Qui Bruno Conti viene da me reinventato pelasgio piccolo e nero gnomo dei mille e forse nemmeno mille dei primi sparuti omarini sbarcati dal mare. Lo vedo e lo ammiro tanto che non ho pudore di improvvisare come quasi sempre riesce lui sull’ erba. La sua palla entra nell’arcana armonia dei mondi e vi obbedisce dominata da magnetismi non immaginabili: la calamita accentua e lenisce le attrazioni esercitate col piede sicuramente dotato di innata magia.

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Battezzo pelasgio Bruno Conti da Nettuno, estraneo ad ogni esemplare etnico dell’Italia a noi nota. Sissignori: sento di doverlo considerare eccezionale anche nelle origini. Un giorno mi dirà grazie per le laudi ma, dubitoso e incerto, mi domanderà: Che vvol di’ pelsgio? Io la prendo larga partendo da Cori, che opponeva mura ciclopiche alla palude pontina: Ecco, quella è città pelasgica, gli dico. Bruno Conti annuisce: il suo antichissimo volto si illumina di un confidente sorriso: Apposta ci è nata mi’ madre!. Fra noi la confidenza non è tale da poterlo abbracciare.

Ho febbre alta al di là dei limiti concessi e delirando (forse!) declamo versi epici di cui solo ricordo il primo: Ach Rah behin Tajima… Un pelasgio di antichissimo sangue può pure starmi accanto come lo fu nel Genoa a Pruzzo di Croce Fieschi! Quali misteriosi sangui ci percorrono, avventurati figli di questa estrema gamba d’Europa? Raramente nella mia lunga vita il mestiere mi aveva dato soddisfazioni più vive e sincere. Questa che ora cerco di esprimere è tutta gratitudine per uno dei massimi giocolieri prodotti dal nostro calcio. Per ironia del destino, il pelasgio Bruno Conti, sicuramente venuto in Italia prima degli indo-europei, è rivissuto a confondere chiunque dubiti delle meraviglie possibili al nostro misterioso e pur grande etnos composito. Grazie, dunque, grazie Bruno Conti da Nettuno: anche il tuo prodigioso avvento ci ha aiutato a vivere.

Gianni Brera
Repubblica – 24 maggio 1991