BEARZOT Enzo: la leggenda del Vecjo

Una carriera calcistica da mediano, poi la lunga gavetta da tecnico azzurro e la splendida vittoria, tra la diffidenza generale, ai Mondiali del 1982. Una grande uomo, ingiustamente emarginato dal calcio che conta


Il suo naso, quel naso da pu­gile che assieme alla pipa ha tracciato i contorni di un’e­poca del calcio italiano, lo hanno modellato tre inciden­ti, come lui stesso ha raccontato: «Tre fratture, mica una. E due causate dai miei compagni. La prima volta ero arrivato all’Inter da poco, partitella, il portiere Soldan grida mia mentre io sono già in aria a respingere di testa, il pugno anziché sul pallone ar­riva sul mio naso. Operato, rad­drizzato, come nuovo. Pronto per la seconda volta, a Trieste, con il Toro. Saltiamo nella nostra area, io per rinviare, Fortunato per in­cornare verso la porta. Ci sbilan­ciano, la palla passa un attimo prima, fronte contro naso, altra frattura. Infine, partitella del giovedì al Filadelfia, la nuca del giovane Mazzero contro il mio vecchio, solito naso. L’ho tenuto cosi, una specie di medaglia se non al valore perlomeno al co­raggio».

Il naso di Enzo Bearzot è un naso sincero. Racconta di un carattere scabro, più incline agli spigoli che alle armonie della di­plomazia, disposto a spezzarsi pur di non rinunciare alla via di­ritta della coerenza e del rigore. Un carattere d’altri tempi, così fuori moda al giorno d’oggi che da anni il pensionato Bearzot En­zo da Ajello del Friuli è stato confinato in un cantone d’oblio dal calcio che conta. Come un appestato, come se il filo di fumo della sua pipa minacciasse imba­razzi al calcio dei grandi affari e dei piccoli risultati. Il ricordo ingombrante, o, se vogliamo, la cattiva coscienza del calcio d’oggi è un’avventura che parte dall’immediato dopoguer­ra. Una carriera da mediano, di quelli di una volta: tosto e risolu­to, la battuta pronta col piattone, la testa a svettare, grazie alla sta­tura torreggiante, per poderosi ri­lanci; sulla mezzapunta avversa­ria o sul centravanti non fa diffe­renza. Per lo più, Enzo Bearzot è centromediano o mediocentro, come si diceva nel calcio d’allo­ra, che respirava il Sistema e affi­dava alla linea davanti al portiere marcature spietate.

La scuola di Rocco

Di famiglia benestante (papà Egidio direttore di banca a Cervignano), di solida cultura classi­ca, ai tempi del ginnasio frequen­ta il pallone con successo. Lo no­ta un dirigente della Pro Gorizia, Serie B, e lo porta nel calcio ve­ro. Due anni dopo il sogno di­venta realtà con la maglia del­l’Inter, ma il gran numero di campioni gli lesina spazio. Una stagione a Catania, che lo matura come uomo e calciatore, poi il Torino, l’amore della sua vita di giocatore, una nuova parente­si in nerazzurro e infine dieci stagioni filate in granata, fino al­l’addio. Con una sfortunata presenza in Nazionale (in mar­catura sull’immenso Puskas), a certificare la solidità del suo cal­cio dal buon profumo di provin­cia, poco elegante, magari, ma molto schietto.

Quando la carrie­ra inciampa sull’età, Bearzot ha in testa solo il calcio e la voglia di rimanervi dentro. Da sempre si sente un “capobranco”, capita­no per vocazione e non per bra­ma d’autorità. Nereo Rocco, tec­nico granata, gli rivolge l’invito formale: «Ciò, bruto mona, quand’è che ti scominzi a darme una man?».
Enzo dal naso schiacciato non aspettava altro. Prende a mano la De Martino, la Primavera dell’epoca rafforzata da elementi della prima squadra. La lezione del Paròn vale più di dieci corsi di Coverciano, anche se si dipana tra il campo di alle­namento e le osterie delle lunghe sere torinesi.

Dopo quattro anni, quando l’annaspante Prato gli chiede aiuto, Enzo si butta e co­glie l’obiettivo, conquistando un ottimo nono posto. L’uomo del destino però è Ferruccio Valcareggi, che gli propone di entra­re nei ranghi federali, con la prospettiva di un lavoro in profondità. Bearzot accetta e se­gue la lunga trafila, al seguito di zio Uccio ai Mondiali 1970 e 1974, poi alla guida dell’Under 23 e infine, nel 1975, aiutante di campo del Ct Fulvio Bernardi­ni. La scelta desta commenti iro­nici, Bearzot è “quello del Pra­to”, anticamera delle contesta­zioni che verranno, dure e impla­cabili.

Nel 1977, quando Bernar­dini si fa da parte con amarezza, Bearzot diventa commissario tecnico azzurro e comincia la più schizofrenica avventura della storia del calcio italiano. La pri­ma preoccupazione del nuovo Ct è la creazione del gruppo, che funzionerà da piedistallo per la Coppa del Mondo. Lo ha sinte­tizzato così, nella memorabile biografia dedicatagli da Gigi Garanzini: «Per far bene in questo mestiere atipico ed estremamen­te empirico si può partire da molte angolazioni diverse. La mia è la creazione del gruppo. Un concetto che ho maturato po­co alla volta da giocatore e ho poi applicato e perfezionato da allenatore. La mia idea di grup­po non è molto distante da quel­la di famiglia, allargata, si capi­sce. Se tu ti senti inserito in un gruppo vero sai di poter contare, in qualsiasi momento, sulla soli­darietà degli altri. E di dover es­sere pronto a fornire la tua, al­trettanto tempestivamente. Puoi essere in grande giornata e sen­tirti capace di dare una mano a chi vedi in difficoltà, come ti puoi sentire in giornatano: ma se vai in campo con la certezza che i compagni ti aiuteranno, riuscirai a dare più di quanto pensavi. Le ore della vigilia sono terribili, l’attesa dell’evento ti prosciuga. Ma tu sai di poter contare sulla solidarietà altrui perché sei inserito in un gruppo. E sai che chi in questo gruppo ti ha inserito sarà sempre molto at­tento a valutare il tuo comporta­mento, il tuo impegno, la tua dedizione: e a perdonarti, in pre­senza di questi requisiti, una pre­stazione non positiva. Per me, quando si va a dirigere una squadra si comincia da qui. Met­tendoci anche tanta pazienza, si capisce, proprio quella che a me inizialmente mancava: l’ho poi imparata frequentando Valcareggi, la persona più paziente che io abbia conosciuto nel mondo del calcio».

La via nuova

La ricerca degli elementi giusti parte da qui, dunque, prima an­cora che dalle pur indispensabili qualità tecniche. Perché il cam­pione può avere piedi d’oro o al­la dinamite, ma se la sua traietto­ria non coincide con quella del gruppo, la sua classe finisce con lo sfiorire fino a sterilizzarsi. L’esperienza del Mondiale 1970, il dualismo tra le primedonne Mazzola e Rivera, aveva lascia­to un segno profondo. Piuttosto che coltivarsi in seno una simile rivalità, Bearzot avrebbe poi sempre preferito operare una scelta definitiva, per quanto dolorosa. E il torinista Claudio Sala, tanto per fare un solo no­me, avrebbe avuto la carriera az­zurra troncata dalla stella di Causio, di pari levatura tecnica, ma parte integrante del gruppo ju­ventino. Ma non si deve credere che l’aspetto tattico passasse in secondo piano. Ed è da questo punto di vista soprattutto che i successi di Bearzot si sono sca­vati una nicchia importante nel­l’evoluzione del nostro calcio, benché qualche superficiale insi­sta tuttora nel fare di tutta l’erba del dopoguerra un unico fascio, prima dell’avvento dei rinnova­tori.

Bearzot conquistò fuori dai confini una popolarità e un lustro senza equivalenti in patria pro­prio per la capacità di sposare le sorti della Nazionale a un gioco non solo difensivo, ma anche di proposizione e di offesa. Col fiasco nel Mondiale 1974, d’al­tronde, si era chiusa la vicenda azzurra del taumaturgo del gol, Gigi Riva, il fenomeno capace di trasformare il contropiede in oro sonante. Battere strade diverse era una necessità. Bernardini ne aveva aperta una, pur lastrican­dola più di progetti che di con­crete realizzazioni. A Bearzot toccò e riuscì il compito di tra­sformare l’idea in realtà, grazie a una serie di intuizioni geniali. Sapeva dai tempi di Rocco che un gruppo vincente va fondato su un’ossatura di giocatori se non anziani quantomeno esperti. Gli alberi maestri cui aggrappar­si nei momenti di difficoltà.

Il primo linciaggio

Pensò allora che il meglio per modernizzare il calcio azzurro fosse scegliere uomini chiave il più possibile eclettici, capaci di tradurre nel concreto l’aspirazio­ne del tempo legata al “calcio to­tale” di stampo olandese. In dife­sa, lanciò prestissimo Scirea, che col tempo sarebbe diventato una leggenda, il libero abile a tra­sformarsi nel primo dei centro­campisti al momento di riawiare l’azione; a centrocampo, Tardelli, terzino d’origine, poteva tra­sformarsi in difensore come in at­taccante di complemento; in at­tacco, prima Bettega e poi Graziani possedevano la generosità e le doti per non fossilizzarsi in po­sizioni di attesa in area di rigore.

Il resto, furono colpi di genio au­tentici, come la convocazione a sorpresa dei giovani Cabrini e Rossi per il Mondiale 1978, quando l’Italia partì per l’Argen­tina tra i fischi del pubblico e la deplorazione indignata di gran parte della critica, e poi divenne la sorpresa più bella della manife­stazione. Non vinse il titolo solo per la fatale imprudenza di an­dare a battere i padroni di casa nella loro tana di Baires quando il girone aveva già dato i suoi ver­detti. Una prova di forza e di or­goglio scontata poi con la decisi­va ostilità dei direttori di gara.

Il quarto posto del ’78 venne saluta­to dall’entusiasmo popolare, che da otto anni attendeva di riaccen­dersi per le maglie azzurre, e dal­l’approvazione generale degli os­servatori esteri: gli italiani sape­vano non solo giocare di rimes­sa, ma anche produrre un calcio piacevole, di prudente ma efficace iniziativa. Il modulo di Bearzot venne ribattezzato impropria­mente “zona mista”, contemplando le tradizionali marcature fis­se in difesa e controlli a zona a centrocampo.

Lo stesso ex Ct l’ha così ricordato: «Il sistema di gioco? Zona mista, quella di allo­ra. Marcature a uomo quando e dove occorre, disposizione a zona nel resto del campo. Ci sono cer­ti tipi di giocatori che puoi annul­lare più facilmente se gli togli un pò d’aria da respirare. Dopodi­ché, se hai assemblato una squa­dra di giocatori polivalenti sai che se la cavano sia se e ‘è da sof­frire e difendere sia quando è il momento di prendere l’iniziativa e attaccare. A forza di giocare in­sieme diventano una buona squadra anche undici mediocri. Figurarsi se tra loro e ‘è un cam­pione, o meglio ancora più di uno».

La riappacificazione con la critica fu soltanto apparente. Una pace armata, come peraltro era inevitabile che fosse, visti i pre­supposti. Gli entusiasmi del Set­tantotto svaporarono in fretta nei due anni successivi, tra amiche­voli sciape e un’Europeo guastato dal calcioscandalo che aveva estromesso Rossi e Giordano, l’attacco titolare. Nell’81 Bear­zot è nell’occhio del ciclone. Le telefonate notturne d’insulti, le parolacce per la strada, frutto an­che di attacchi a dosi massiccie da esagitate tribune televisive, lo costringono a cambiare casa a Milano, almeno per proteggere la famiglia. A tanto arriva il mal­costume crescente, a tanto la mio­pia, destinata a subire il contrap­passo più feroce.

Il trionfo del coyote

Quando Bearzot si accinge a par­tire per la Spagna, nella tarda pri­mavera del 1982, le voci a lui favorevoli sono una sparuta mino­ranza. Il resto è attacco frontale, quotidiano, che nel corso della fase preliminare del Mondiale, in­tonacata di ben poco esaltanti pa­reggi, rasenta il linciaggio. D’al­tronde, dagli stessi vertici azzurri arrivano ben poco eleganti repri­mende dopo una partitella di alle­namento col Braga, in Portogallo, alla vigilia del debutto, a fomenta­re vieppiù il clima ostile. Qualcu­no dipinge Bearzot come lo sce­mo del villaggio, altri come un pugile fin troppo suonato.

Dal terreno tecnico la faccenda tracima su quello umano. E quando anche i calciatori vengono presi di mira, scatta la scelta del silenzio stampa. Il patriarca Zoff ha il compito di tenere in vita l’esile filo dei rapporti con la truppa dei cronisti acquartierata a Vigo. Assediato nel fortino, Bearzot, sempre più cupo e scontroso, si stringe ai suoi “coyote” e prepara le sfide impossibili del secondo turno: l’Argentina di Maradona e il Bra­sile di Zico, che dovranno segna­re la sua definitiva caduta nella polvere.

Alla vigilia della spedi­zione, Paolo Rossi, detto Pablito dai felici tempi argentini di cui aveva incarnato la più fragrante sorpresa, è uscito dai ceppi del calcioscommesse, due anni di squalifiche che ne hanno arruggi­nito i meccanismi. Bearzot lo ha voluto con sé e lo ha mandato in campo, insistendo nonostante le esili esibizioni. Una testardaggine violentemente contestata. Enzo insiste e manda ancora Rossi in campo, contro tutto e tutti. E Pablito, miracolo, si sblocca con­tro l’Argentina e poi trafigge tre volte il Brasile. Un’apoteosi. E continua con la Polonia, fino al gran finale contro la Germania.

L’Italia campione del mondo è meno frizzante e tecnica di quella argentina, ma la pareggia in effi­cacia. Zoff, mirabile quarantenne, è il miglior portiere del Mondiale, In difesa giostrano la coppia di terzini Gentile-Cabrini, una delle meglio assortite della storia, un marcatore fisso, Collovati o il di­ciottenne Bergomi, il libero Scirea; a centrocampo, un faticatore, Oriali o Marini, l’incursore Tardelli e i fantasisti Conti e Antognoni. In attacco, il guizzante Paolo Rossi, re dell’opportuni­smo, e il generoso Graziani. Nel­la notte di Madrid, l’11 luglio 1982, Enzo Bearzot sale nell’em­pireo del calcio assieme ai suoi ragazzi. Il corteo alle sue spalle si è ingrossato all’improvviso.

As­sieme ai politici, sul carro del vincitore salgono ansimando un po’ tutti, a costo di funamboliche e un po’ patetiche virate di trecen­tosessanta gradi. Lo scemo del villaggio è diventato un “galan­tuomo”, se non proprio un genio della panchina. Bearzot comincia il giorno dopo la sua decadenza. Medita di lasciare, ma non se la sente di abbandonare i suoi ragaz­zi e commette l’errore più grave. Il resto, lo faranno i risultati, im­placabili nella scissione tra la pa­rentesi mondiali e il resto del me­nu quadriennali. Nell’anno solare 1982, la Nazionale di Bearzot vince solo quattro partite: ma so­no appunto quelle che valgono il Mondiale.

Sbattuta fuori dalle qualificazioni europee, la squa­dra raggiunge senza troppi stimo­li il Mondiale messicano dell’86, dove la sindrome da appagamen­to e l’esiguità del rinnovamento esplodono dopo la prima fase nel­la resa alla Francia di Platini. Per i detrattori, la caduta di Bearzot decreta la fine di un incubo. Ma nulla sarà più come prima e anco­ra oggi il fantasma della vittoria a sorpresa e delle marce indietro a catena ancora si agita davanti a chi giudica la Nazionale e vorreb­be magari affondare il bisturi del­la critica.

Quanto a lui, Enzo Bearzot, si offre docile ai carnefi­ci. Viene insignito della carica di direttore delle squadre nazionali, per essere dopo poco brutal­mente emarginato, come si con­viene a chi ha osato vincere, perdipiù sulla diffidenza generale.Muore a Milano, nella sua casa in zona Vigentina, il 21 dicembre 2010 ricordato da chi gli è stato sempre vicino e dai tanti che, colpevolmente, lo riscoprono solo ora.