1950 – Boniperti: «Vinti da Atlantico e noia»

«Fu un’avventura fantastica che mi arricchì sul piano umano e rappresentò un’esperienza calcistica preziosissima per il resto della carriera».

Così Giampiero Boniperti, che aveva 22 anni quando visse il suo primo, sfortunato mondiale in Brasile. C’erano in lui, oltre al talento, l’entusiasmo e la passione che gli hanno poi consentito di raggiungere i traguardi più ambiti nell’arco di una vita intera dedicata al calcio.

Alla vigilia del Mondiale ’50, la Juve era tornata a fregiarsi dello scudetto, l’ottavo della sua storia, dopo 15 anni di attesa. Dal ’35, al culmine del quinquennio, non vinceva più il campionato. L’Italia era campione del mondo in carica, in virtù del successo di Parigi ’38, ma non disponeva di una formazione in grado di difendere lo scettro ed era sotto choc per la scomparsa di Valentino Mazzola e degli altri grandi giocatori granata.

Quasi a voler simboleggiare il primato di Torino calcistica, la Juventus, guidata dall’inglese Jesse Carver, aveva raccolto il testimone conservando lo scudetto sotto la Mole. Grazie però all’apporto di tre assi stranieri: i danesi John Hansen e Karl Aage Præst e l’oriundo argentino Rinaldo Martino, straordinario artista del pallone ma malato di nostalgia.

L’altra stella era il giovane Boniperti che aveva conquistato il primo dei suoi cinque scudetti sul campo. Nell’ultima giornata del torneo, al Comunale torinese contro la Samp, aveva realizzato una tripletta, portando a 100 i gol segnati dalla Juventus. La classifica dei cannonieri era stata appannaggio dello svedese Gunnar Nordahl, detto il «bisonte» con 35 centri, record per i tornei a 20 e 21 squadre, quasi un terzo dell’incredibile bottino (118) che non era bastato al Milan per superare la Juve.

La Svezia, già campione olimpica a Londra nel ’48, avrebbe vendicato Nordahl ai mondiali. Ma andiamo con ordine. Tutto cominciò con il viaggio degli azzurri sulla motonave Sises.

«L’effetto Superga era ancora nei nostri animi. La catastrofe aveva inciso profondamente non solo sul calcio italiano, distruggendo l’ossatura della Nazionale, ma anche nella gente. All’interno e all’esterno dello sport, il trauma fu tremendo e difficile da assorbire. E c’era in tutti la paura di volare. Così i dirigenti ed i tecnici federali decisero di rinunciare all’aereo, all’andata. Un errore che scontammo sul campo».

Chi, più di altri, aveva inciso sulla scelta della nave fu Aldo Bardelli, il giornalista livornese che ricopriva la carica di c.t. in seno alla commissione presieduta da Ferruccio Novo, il presidente che aveva creato il Grande Torino, e composta da Berretti, Biancone, con l’ausilio di due allenatori Sperone e Ferrero. Più che un’avversione, si trattava di una fobia per gli aerei non solo da parte di Bardelli. Da Napoli salpò la motonave con rotta su Santos. Una grande folla salutò gli azzurri che il giorno prima erano stati ricevuti a Roma dall’on. Giulio Andreotti per un pranzo.

Due settimane in mare sono indicate per una crociera, non per una preparazione premondiale. Di veri allenamenti neppure a parlarne. Alla fine eravamo senza palloni: tutti persi tra le onde dell’oceano. A metà viaggio sbarcammo a Las Palmas, nelle Canarie, e potemmo finalmente trovare un campo su cui giocare. Ma fu una parentesi.

Di nuovo in nave. Al mattino gli azzurri venivano radunati sul ponte. Poco calcio, tanto ping-pong, pallavolo e noia per il resto della giornata.

«Io resistevo ma tra rollio e beccheggio, molti miei compagni soffrivano il mal di mare ed i conati di vomito erano all’ordine del giorno e della… notte»

Erano le avvisaglie di una spedizione stregata più che fallimentare nel senso letterale della parola. La disfatta era nell’aria e quella Coppa Rimet che seguiva la squadra nella cassaforte già non ci apparteneva più.

Prima Rio de Janeiro, poi Santos tra una moltitudine di nostri immigrati residenti nello Stato di San Paolo. Nella capitale, la sede degli azzurri che, nel loro girone di qualificazione, dovevano affrontare la Svezia e il Paraguay. Il bel Giampiero, con i suoi biondi riccioli, era l’idolo delle ragazze. Una mulatta lo seguiva dai bordi del campo in tutti gli allenamenti. Fuochi d’artificio per la festa di San Giovanni tennero svegli i giocatori.

«La nostra sfortuna, a parte la mancanza di una vera e propria preparazione e un caldo terribile mozzafiato e tagliagambe, fu quella di affrontare subito una grande Svezia: molti di quei vichinghi vennero poi ingaggiati da società italiane, tra i quali Nacka Skoglund e Hasse Jeppsson».

Nella formazione che scese in campo all’Estadio Municipal do Pacaembu, alle 15, ora locale, di domenica 25 giugno, c’erano altri due juventini: Carlo Parola ed Ermes Muccinelli, oltre all’ex Sentimenti IV in porta, e un granata, Riccardo Carapellese. Era una squadra mosaico che comprendeva gli interisti Giovannini e Campatelli, il laziale Furiassi, il milanista Annovazzi, il fiorentino Magli e il bolognese Capello.

«Carapellese ci portò in vantaggio poi Jeppson, che sarebbe diventato famoso anche in Italia per il suo clamoroso trasferimento dall’Atalanta al Napoli per la cifra record di 105 milioni, segnò il primo dei suoi due gol che, insieme con quello di Andersson, ci misero k.o.: inutile il 2-3 di Muccinelli e ancora più inutile il mio tiro che si schiantò contro la traversa. Fu l’unica mia presenza in quel mondiali. Non giocai con il Paraguay. La vittoria per 2-0 con i gol di Carapellese e Pandolfini non ci evitò l’eliminazione. Fu un epilogo triste e amaro. Al Brasile, che aveva uno squadrone di autentici fenomeni come Ademir e Baltazar, che saltava arrivando con l’ombelico sulla traversa, toccò sorte ancora più amara. Perse la coppa contro l’Uruguay di Schiaffino e Ghiggia al Maracanà di Rio davanti a 200 mila tifosi. Un lutto nazionale».

L’Italia rientrò in patria in aereo.

«Furono 35 ore di viaggio ma con le navi avevamo chiuso». Lui e la Juventus tornarono in Brasile l’anno dopo in una sorta di Coppa del mondo di club. «Conquistammo i brasiliani con un football spettacolare e quando nel ’75 mi ripresentai a San Paolo come presidente della Juventus in tournée postcampionato, ho incontrato molte persone che ancora si complimentavano per quella impresa».

Era scritto che i grandi successi di Giampiero Boniperti fossero legati esclusivamente alla Juventus. Una regola che non ha fatto mai eccezioni in una vita in bianconero.